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Immaginare l’ecologia: il progetto culturale di serra madre

L'intervista alla direttrice artistica Nicoletta Tranquillo

Written by Salvatore Papa il 29 September 2025
Aggiornato il 30 September 2025

Foto di Francesco Lombardo, courtesy Kilowatt

Inaugurato all’interno delle Serre dei Giardini Margherita un anno fa, serra madre è il nuovo centro di produzione culturale di Kilowatt. Lo spazio rappresenta il punto d’arrivo del processo avviato dalla cooperativa nel 2014 nell’area e si configura come il luogo dove si sposano perfettamente le due anime del progetto di riqualificazione delle serre: quella artistica e quella ecologica.

Summa di tutto questo è il nuovo Festival of Ecological Imagination (1-6 ottobre 2025), che raccoglie l’esperienza di Resilienze Festival per attivare pratiche artistiche che immaginano e costruiscono mondi possibili fondate sulla cura, la rigenerazione e la reciprocità.

Il titolo scelto, Sensing the Climate, indica un percorso che va oltre la crisi ecologica come questione ambientale, per leggerla come sintomo di una disconnessione più profonda – percettiva, affettiva, culturale. Un invito a ripensare le dicotomie radicate (umano/non umano, mente/corpo, natura/cultura) e a sperimentare un cambio di paradigma, dove conoscere significa entrare in relazione e curare diventa atto politico.

La direzione artistica è di Nicoletta Tranquillo che ci ha raccontato da dove tutto è partito e quali sono le prospettive e i desideri.

Foto di Lorenzo Burlando

Puoi raccontarci come nasce serra madre e quale ruolo ha nel promuovere un approccio in cui arte, scienza e ecologia dialogano tra loro?

Sicuramente serra madre, dal punto di vista economico e di impegno, è il progetto più grande che abbiamo portato avanti. Direi che ci sono due aspetti fondamentali.

Il primo riguarda l’esperienza di oltre dieci anni nella gestione delle Serre dei Giardini, che ci ha fatto capire fino in fondo il valore e l’importanza di uno spazio pubblico. Le serre sono sempre aperte: non sono solo un luogo di consumo, ma uno spazio di incontro, di relazione, di sperimentazione. Uno spazio dove è possibile vedere e vivere piccoli cambiamenti, in un mondo in cui il cosiddetto “realismo capitalista” ci porta a pensare che non sia possibile vivere in modi diversi. Invece qui si fa esperienza di relazioni differenti, di stili di vita più o meno ecologici, e questo è estremamente importante. È anche per questo che, quando il Comune di Bologna ha messo a bando le serre, abbiamo deciso di candidarci con un progetto interamente dedicato al pensiero ecologico.

Il secondo aspetto ha a che fare con il mio percorso personale: mi sono sempre occupata di cambiamento climatico ed ecologia, ma da un punto di vista tecnico — progetti, soluzioni di adattamento o mitigazione. Poi, anche attraverso l’esperienza con Resilienze Festival e con la riflessione maturata negli anni, è diventato chiaro che la crisi ecologica non è solo un problema ambientale, ma soprattutto culturale. È il problema di una cultura occidentale, capitalista, estrattiva, patriarcale… insomma, un modello che mostra tutti i suoi limiti. Non possiamo affrontare le sfide ecologiche senza un’operazione culturale: serve decostruire questo sistema di pensiero e provare a ricostruirne uno nuovo, su basi diverse.

Da qui l’idea di dedicare serra madre all’immaginazione ecologica, facendo dialogare discipline diverse. Perché un’operazione culturale non si regge solo sui dati scientifici: da cinquant’anni sappiamo che il cambiamento climatico è in corso, ma i dati, da soli, non bastano a trasformare la cultura. Mettere in relazione saperi differenti permette di restituire la complessità del presente, che non può essere ridotta a un solo punto di vista.

E qui l’arte ha un ruolo decisivo: apre spazi di immaginario, dà nome a ciò che non è ancora nominabile, contribuisce a generare quell’operazione culturale che oggi è urgente.

Com'è caratterizzata la vostra convenzione con il Comune e qual è stato l'investimento su serra madre?

Sono due assegnazioni diverse. Le Serre dei Giardini Margherita ci sono state affidate per 15 anni – siamo qui da 12 -, a fronte dell’investimento iniziale di riqualificazione che avevamo sostenuto e dell’impegno nella manutenzione degli spazi.

serra madre, invece, è stata una sfida molto più complessa. Anche il progetto di riqualificazione era molto più articolato e, nel bando del Comune, era previsto un canone d’affitto annuale. Questo affitto viene però scontato in proporzione all’investimento fatto: quindi la durata dell’assegnazione è direttamente legata all’entità dell’investimento.

Noi ci eravamo impegnati inizialmente a investire circa 750 mila euro, sulla base del computo presentato dagli architetti. L’assegnazione è arrivata nel 2020 e, come sappiamo, da lì è cambiato tutto: il superbonus 110%, la guerra in Ucraina, l’aumento generale dei costi. Alla fine l’investimento complessivo su serra madre è arrivato a circa 2 milioni di euro.

Questo ci garantisce l’uso dello spazio per un periodo proporzionato a quanto investito. Ci tengo a sottolineare che è stato un investimento diretto di Kilowatt: abbiamo partecipato a bandi che ci hanno sostenuto in parte, ma la spesa è stata assunta dalla cooperativa.

Il vostro approccio integra prospettive antropologiche, filosofiche ed ecologiche. Quali sono gli autori/autrici e libri che vi ispirano in questo cammino?

Le nostre fonti di ispirazione arrivano da discipline diverse, proprio perché crediamo che sia nell’incrocio dei saperi che nascano nuove prospettive.

Un punto di riferimento importante sono le filosofe femministe come Donna Haraway. Poi ci sono artisti che fanno anche ricerca, penso per esempio a James Bridle. Oppure scrittori come Robert Macfarlane che, con libri come È vivo un fiume?, riesce attraverso la letteratura ad aprire spazi di immaginazione nuovi e profondi.

Dal lato antropologico, per il festival in particolare, un libro che mi ha molto ispirata è The Spell of the Sensuous: Perception and Language in a More-than-Human World di David Abram, uscito nel 1996 e purtroppo mai tradotto in italiano. È un testo che ricostruisce i passaggi attraverso i quali la cultura occidentale ha progressivamente separato la mente e il corpo umano dall’ambiente circostante. È stato per me una lettura fondamentale per capire come certi automatismi culturali ci abbiano condotto a rafforzare uno sguardo antropocentrico e separato dal mondo naturale.

Naturalmente, ci sono anche le letture più tecniche e istituzionali: tutto ciò che riguarda l’UNFCCC, le COP sul clima, i report scientifici. Ma la vera ricchezza sta nel tenere insieme punti di vista differenti — letteratura, filosofia, antropologia, scienza — che ci aiutano a vedere i bias della nostra cultura e ad aprire altre possibilità di pensiero.

Nella relazione tra arte e scienza è sempre l’arte a imparare o talvolta succede il contrario?

Direi assolutamente che anche la scienza può trarre ispirazione dall’arte. Certo, gli artisti e le artiste sono spesso più abituati a confrontarsi con l’incognito e a seguire percorsi non lineari: per questo sono particolarmente attratti dal dialogo con il mondo scientifico. Ma abbiamo avuto anche esperienze in cui è avvenuto il contrario.

Con i ricercatori e le ricercatrici del Cineca, per esempio, è nato un confronto molto stimolante. Tutti si sono mostrati entusiasti, perché il lavoro con gli artisti ha permesso loro di guardare ai dati da prospettive nuove: non soltanto come visualizzazioni tecniche, ma come letture multidimensionali, capaci di restituire sfumature che altrimenti resterebbero invisibili.

Un altro ambito interessante è quello della sonificazione dei dati. serra madre è dotata di un impianto audio immersivo molto avanzato, in grado di spazializzare il suono. Lo utilizzeremo anche durante il festival, e intanto stiamo sperimentando come trasformare i dati in paesaggi sonori. Anche qui i ricercatori hanno trovato nuove modalità per relazionarsi con i propri dati e ne sono rimasti molto colpiti.

Spesso parlate di corpo come “soglia di relazione” con il vivente. Puoi spiegarci questo concetto?

Il tema del corpo come soglia di relazione ci arriva da tante autrici e autori, alcuni già citati prima. Penso ad esempio ad Astrida Neimanis con il suo Bodies of Water, dove descrive come l’acqua attraversi continuamente i nostri corpi, con uno sguardo femminista e post-umanista. In generale, il riferimento al corpo nasce da un approccio che intreccia ecologia e studi femministi.

Nel festival — ma in realtà in molte attività di serra madre — questa idea si traduce in due direzioni principali.

La prima riguarda il modo in cui pensiamo agli spazi e ai processi di apprendimento. Non tutti i corpi sono uguali, e tenerne conto è fondamentale. Per questo costruiamo ambienti che non riproducano logiche frontali e gerarchiche — con qualcuno che parla dal palco e altri che ascoltano passivamente — ma luoghi più circolari, morbidi e dialogici. Spazi in cui ogni corpo possa stare bene e sentirsi coinvolto come soggetto attivo. Anche i momenti di ascolto vanno in questa direzione: ad esempio, nelle due mattine dedicate al suono, l’ascolto non sarà solo un’esperienza intellettuale, ma un’esperienza corporea e sensoriale che coinvolge l’intera persona.

La seconda direzione nasce da una prospettiva fenomenologica, che ci ricorda come percepire significhi partecipare e partecipare significhi percepire. Quando tocchi un albero, ad esempio, anche l’albero sta toccando te: è l’inizio di una relazione. Questo si riflette in alcuni dei progetti che proponiamo, come il laboratorio To meet a tree di Daisy Corbin O’Grady (sabato 4 ottobre, ore 16.00); un esempio è Hydrocene di Sara Francesca Tirelli (1–6 ottobre), un lavoro in realtà virtuale dedicato all’acqua, che durante il festival diventerà una performance immersiva dal vivo, con una cantante e senza più bisogno del visore VR. L’esperienza così non resta confinata agli occhi, ma coinvolge tutto il corpo, restituendo un senso di immersione totale.

Ci sono festival o spazi simili al vostro al quale vi ispirate o dove avete incontrato alcuni degli artisti che fanno parte della programmazione di serra madre?

Più che dai festival, il nostro lavoro nasce soprattutto dalle relazioni con gli artisti e le artiste che lavorano su questi temi a livello internazionale. È una rete europea molto viva: spesso attraverso un’artista se ne conosce un’altra, e così si alimenta un ecosistema di scambi e collaborazioni che per noi è il principale punto di riferimento.

Detto questo, ci sono sicuramente anche festival e centri di ricerca che sentiamo affini. Penso ad esempio al festival olandese Sonic Acts di Amsterdam, che lavora sull’ecologia a partire dal suono: un approccio che poi si estende al corpo e ad altre dimensioni sensoriali.

Un altro punto di riferimento importante è Ars Electronica a Linz. Non è un festival specificamente dedicato all’ecologia, ma è un luogo centrale per l’arte e le tecnologie digitali. Negli ultimi anni, però, all’interno di quel contesto è cresciuta moltissimo una critica alla tecnologia intesa come “soluzione a tutto”, e si sono sviluppate pratiche che la inseriscono invece dentro una visione ecologica. Alcuni degli artisti che hanno esposto a serra madre o fatto residenze qui li abbiamo incontrati proprio in quell’ambito.

Anche l’Institute for Postnatural Studies di Madrid è per noi un punto di riferimento molto stimolante. È un centro che unisce ricerca, progetti, workshop, mostre, residencies, seguendo temi come “postnatural matter”, ecologie del suono, design oltre l’umano, insomma pratiche che dialogano forte con ciò che stiamo cercando di fare a serra madre.

Perché avete deciso di abbandonare la parola Resilienze?

Devo dire che personalmente non l’avrei abbandonata. Però è diventata una parola un po’ antipatica: come spesso accade con i termini legati all’ecologia, al sociale o anche alla rigenerazione urbana, a un certo punto vengono usati troppo, piegati, criticati. E non potevamo ignorare il dibattito che si è aperto attorno a questo termine.

Parallelamente, sentivamo una forte esigenza di spostare il focus sul tema dell’immaginazione. Viviamo immersi in un senso diffuso di immobilismo, di impossibilità di cambiare davvero le cose. Recuperare uno spazio di immaginazione significa anche recuperare uno spazio di desiderio, e ci sembrava fondamentale lavorare in questa direzione.

Il vostro obiettivo resta aumentare la consapevolezza della crisi ecologica. C'è qualcosa che vi dice che ci state riuscendo?

Credo che siamo ancora all’inizio, quindi i risultati veri si vedranno più nel medio periodo. Quello che noto, però, è un interesse crescente: le persone che partecipano agli eventi di serra madre sono contente, dicono di stare bene, e questo non è affatto irrilevante. Per me è già un piccolo segnale.

C’è anche un coinvolgimento sempre maggiore da parte di studenti e studentesse, che ci scrivono per partecipare, per proporre attività o per collegare i loro progetti di ricerca al nostro spazio. Questo interesse delle generazioni più giovani lo leggo come un messaggio molto positivo.

E poi c’è un altro aspetto: la sensazione diffusa che le persone trovino qui un luogo accogliente, dove si sentono bene insieme agli altri. Anche questo, secondo me, è parte importante del lavoro culturale che vogliamo portare avanti.