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Da Inverno Fest a Razzle Dazzle: il sovraccarico sonoro sensuale e violento di No Glucose

Written by Salvatore Papa il 26 September 2023
Aggiornato il 27 June 2024

A Bologna dal 27 settembre al primo ottobre arrivano le stravaganze di razzle dazzle 2k23, nuovo festival del collettivo No Glucose, crew a cui si devono le prime italiane di Idles, Machine Girl, Deli Girls e tanti altri, a volte in locali infinitamente più piccoli di quanto possiate immaginare. Molti li ricorderanno per Inverno Fest e penseranno che da lì di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, così come guardando i nomi nel cartellone di razzle dazzle (Evita Manji, Prison Religion, Talpah & Deepho, XIU XIU, ¥ØU$UK€ ¥UK1MAT$U , Deijuvhs, MÜNKI , Venetta, 3PHAZ, Loto Retina, Reptilian Expo, Don The Tiger, Monopoly Child Star Searchers, Gertie Adelaido, Luna Lias, NGHTCRWLR). Ma la verità, come ci racconteranno, è un’altra. 

Ecco la nostra chiacchierata con Antonio Polimeni che tocca anche aspetti legati alla cultura indipendente e alla necessità (o insensatezza) di fare un festival a Bologna (e in Italia) oggi.

 

Facciamo un salto indietro: qual è la storia di No Glucose e chi c’è dietro?

Ci siamo conosciuti sotto a un palco. Dario, Lucia, Antonio, Emanuele la prima combriccola, che ha dato vita all’associazione e negli ultimi tempi sta provando a valorizzare i contributi creativi di una base sempre più larga di associat*. Io ed Emanuele, ad esempio, siamo amici dalle elementari e facciamo cose così da tipo… (quasi) 20 anni? Con fortune alterne, sicuramente, ma ancora con lo stesso spirito. Il nostro primo progetto è stato un sito web fatto in casa a ridosso degli anni Duemila, si chiamava Rastafari Social Club e non ha visto mai la luce. L’incontro decisivo per l’origine di No Glucose è avvenuto tanti anni fa al Covo, dove è nata la prima copia di No Hope Fanzine e abbiamo conosciuto Sniffin’ Glucose, che tuttora è un blog e una trasmissione radiofonica. Da questo mish-mash casuale e un po’ caotico è nata la scintilla.

Da Inverno Fest, dove l’attitudine era più “rock” siete approdati a generi molto più trasversali, fino al nuovo festival razzle dazzle che esprime mi sembra la vostra nuova anima di ricerca fluida...

Sicuramente veniamo da quello e ho sempre intimamente pensato che la chiave di questa apertura sia da cercare nei primi ascolti di tracce come “My Wild Love” dei Doors e “We Will Fall” degli Stooges, passaggi anomali nei classici del genere che da giovanissimi abbiamo imparato a sottrarre dagli scaffali delle case dei parenti, insieme alle colonne sonore di film come Trainspotting e Natural Born Killers, che erano i pezzi “vietati” presenti in tutte le collezioni di vhs dei ‘90. Devo dire però che, a parte qualche eccezione, sono convinto che il nostro focus non si sia mosso più di tanto in questo festival o sia ritornato parecchio alle origini. Cercare il nuovo Jimi Hendrix oggi è un po’ anacronistico, se ne starebbe nascosto tra i tools musicali più esotici di un Macbook Pro, ma le chitarre sono presenti un po’ ovunque anche se registrate e mescolate nei campionamenti più diabolici. E a proposito di campionamenti, al concerto di Carl Stone non eravamo poi tanti…

Ciò che mi sembra invece non essere mai cambiata è l’attitudine “indipendente”. Questo termine vuole dire ancora qualcosa in ambito musicale, secondo voi?

Oggi è quasi tutto inter- e internet-dipendente. Viviamo il sovraccarico di media che se da un lato, nella musica e in altri campi, ha creato spesso wave capaci di nascere e spegnersi nel giro di poche settimane o qualche stagione, dall’altro ha reso possibile a chiunque pubblicare qualsiasi cosa, generare profitti e mettersi alla ricerca di un proprio pubblico nel nuovo palcoscenico globale. Poi può accadere di non riuscire ad affermarsi immediatamente, è quasi scontato per ciò che spinge i limiti o si avventura in zone ignote, ma è anche vero che la rete a volte riconosce qualcosa a questo logorio pionieristico… Nei circuiti mainstream ne arriva solitamente in differita una versione più edulcorata (e a volte un po’ patetica); sono sempre più a rischio il ruolo aggregativo dei negozi di dischi e quello critico e divulgativo delle riviste di settore, soppiantati in tempi recenti da post di influencer.

Lo sguardo è al mondo, ma poi vi tocca comunque fare i conti con la realtà cittadina. Com’è questa realtà oggi? Perché di spazi indipendenti ne sono rimasti pochi...

Bologna con la sua storia millenaria è ancora molto attrattiva per quello che rimane, ma a un certo punto dovrà anche decidere, immagino, quali tra le sue vocazioni salvaguardare. Progetti come il nostro non riescono più a trovare spazio per svilupparsi o esprimersi al pieno delle proprie potenzialità. L’offerta di musica e intrattenimento risulta fondamentale per la scelta della città in cui formarsi negli studi universitari e una recente ricerca di Sound Diplomacy, società di consulenza investita di questo tipo di studio nel Regno Unito, ha dimostrato che ogni singola sterlina investita in progetti orientati al consumo culturale genera un indotto per la città di 127 sterline. Uno a centoventisette.

È comunque in atto un lavoro sull’economia della notte che ha già messo a confronto diversi operatori. Avete preso parte? E cosa ne pensate?

Non ne abbiamo preso parte direttamente e ci è sembrato un primo spazio di discussione, interlocutorio, finalizzato a sensibilizzare la cittadinanza e gettare le basi per un progetto che deve necessariamente avere un contributo partecipativo più ampio e localizzato per riuscire a comporre pretese agonistiche e inconciliabili come quelle del diritto al tempo libero, al divertimento e al riposo. In questo contesto lo sforzo delle advocacy, che ha avuto grande eco a seguito della chiusura dei club durante la pandemia, ha sicuramente il merito di aver concorso a dare maggior visibilità e valore alla questione, spingendola verso zone più calde dell’agenda pubblica. Inquinamento luminoso, rumore antropico, precarietà e sostenibilità del lavoro notturno (con i maggiori oneri in termini di spesa per la salute pubblica ad esso connessi), sicurezza e parità di accesso alle opportunità relazionali e di lavoro della notte sono temi che non possono prescindere da un’analisi di contesto più approfondita e di soluzioni innovative. Servono spazi, idee e una cultura democratica nel senso più alto, perché il rischio di favorire le posizioni partigiane che riescono ad essere meglio rappresentate, o di finire nella trappola mortifera del commercio infinito, è molto alto. Hai notato come si è riaccesa New York con il crollo dei prezzi degli affitti? Finito il Covid sembra che il turismo abbia ormai ripreso ad aggredire le aree residenziali e che l’onda creativa improvvisa sia quindi già sul punto di finire, con una nuova migrazione verso luoghi che riescono a garantire tempi e modelli di vita più sostenibili.

Perché Razzle Dazzle? Da dove arriva il nome e come ci siete finiti dentro? Raccontateci come l’avete costruito

Tornare al formato festival era la scelta più ovvia per restituire visibilità al nostro percorso di ricerca, che in tempi recenti ha vissuto episodi davvero importanti – mentre scrivo sono quasi le 2 di notte e in piazza Aldrovandi si urla. Non sapevamo di aver seminato negli anni così tante connessioni – che dopo l’annuncio si sono attivate o, in alcuni casi, materializzate dal nulla – e non è stato semplice prendere questa decisione potendo contare solo sui nostri risparmi di organismo multiforme nella forma di associazione non profit. Razzle Dazzle è nato per gioco e per sfida tra persone che condividono la stessa passione, con l’intento di condividere delle esperienze legate alla musica dal vivo. Il suo nome è un’invenzione di Emanuele, fotografa perfettamente la nostra voglia di farci vedere, di generare e goderci una massiccia dose di frastuono. Anche il lavoro di Tiziana De Felice è stato incredibile. Puppy Moth (la falena barboncino, ndi) sintetizza perfettamente la nostra natura di animali considerati notturni perché più vivaci di notte, nella temporanea assenza di predatori diurni, così come l’istinto di attrazione e repulsione per le luci artificiali, o il senso di orgoglio e di appartenenza dell’essere lepidotteri e la nostra identità che ci distingue dalle farfalle.

In un momento dove tutto è festival, è ancora importante fare un festival?

La nostra proposta, a volte, si fa portatrice di valori culturali e sociali che eccedono la mera sostanza musicale, vedi l’esibizione di 3Phaz che suonerà un genere di musica definito dall’establishment politico egiziano “più dannoso del coronavirus”. In uno scenario in cui i festival internazionali assumono sempre più ragioni estetiche e di programmazione che si possono ricondurre a immaginari stock, come i centri storici delle città che tendono sempre più a somigliarsi da Bologna a Amman, dare continuità a una manifestazione che è in primo luogo espressione del territorio può essere fondamentale per favorire quelle dinamiche di empowerment di comunità che contribuiscono concretamente a migliorare la qualità della vita. In modo parallelo si pone un serio problema di compatibilità tra queste iniziative e la città, e di conseguenza un tema molto attuale di sostenibilità. Nelle prime settimane dall’annuncio abbiamo avuto dall’estero molti contatti, persone che hanno iniziato a scriverci per avere consigli nella ricerca di un alloggio. Superfluo dire che non abbiamo saputo farvi fronte. Più in generale, anche quando confrontiamo tutto ciò che riguarda la produzione artistica e culturale, come i costi sostenuti dai fruitori, il confronto con i festival europei è impari. Al di là delle differenze nelle modalità di fruizione, distanti e in alcuni casi persino opposte, andare all’Unsound o al Primavera costa molto meno che partecipare a un evento realizzato a qualche centinaio di chilometri di distanza. Vista così, fare un festival è certamente importante… ma non ha alcun senso fare un festival (ride, ndi).

Innamoramenti che vi sono capitati in questi anni?

Di Carl Stone qualcosa ho già detto…più che altro il nostro percorso si nutre di continui innamoramenti e magia inconsapevole. Negli ultimi tempi abbiamo avuto la fortuna di riuscire a vedere da vicino progetti musicali divenuti, nel giro di poco, troppo grandi per le realtà spontanee o indipendenti e ancora troppo ricercati per poter suscitare interesse per le produzioni di quelle entità professionali che per loro natura antepongono valutazioni sul rischio d’impresa all’offerta. Le nostre attività rimangono ancorate agli obiettivi di promozione sociale perseguiti su base associativa, ma quando pensiamo alle imprese che riescono ad adottare policy di gestione volte alla ricerca di una proposta di qualità oltre le mere valutazioni di costo-opportunità, altrove nel mondo queste ultime acquistano il riconoscimento di “grassroots club” e uno status privilegiato e tutelato da parte delle istituzioni. E a proposito di esempi da seguire, nel festival che inizierà la prossima ci sarà anche Deijuvhs, da East London, che a 27 anni ha già dato vita a un festival e un fondo dedicato al supporto di giovani artistx.