Così, nonostante un exploit ottenuto grazie al progetto condiviso Yussef Kamaal, ha sempre implicitamente preso le distanze dalla scena nu-jazz londinese che nel frattempo ha conquistato il mondo. Ha sciolto il duo con il batterista Yussef Dayes, si è messo in proprio fondando la sua etichetta, ridicolizzando i neologismi da giornalisti musicali (“Il jazz è una cosa che succedeva settanta anni fa”, ha detto una volta) e percorrendo una strada sempre a limite tra le sue due anime: quella del producer devoto al dancefloor e quella del tastierista innamorato dei morbidi suoni di Hancock e co. Unendo al tutto una ricerca estetica intrigante sulle sue origini asiatiche (è di madre taiwanese) e la fede islamica acquisita.
Un artista realmente eccitante e che regala ai suoi ascoltatori il privilegio sempre più raro di rimanere in un limbo tra mainstream e underground, con un affascinante equilibrismo che ormai nessuno è più capace di esercitare. È noto poi che dal vivo dia il meglio di sé, quindi indossate le scarpe comode che ci si vede sotto palco.
Scritto da Giulio Pecci