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Benvenuti in Santo Stefano

Paese che vai gente che trovi

quartiere Santo Stefano

Scritto da Salvatore Papa il 26 febbraio 2021

Foto di Asia Giannelli

Santo Stefano è un paese che racchiude altri paesi, alcuni molto ricchi altri un po’ meno; strade attraversate dalla storia della letteratura, vecchi e nuovi caffè, artigiani, osterie, giardini segreti ed ex botteghe trasformate in garage, case di lusso che affacciano su umili appartamenti piccolo borghesi; centro destra e centro sinistra a braccetto ovvero: il centro, con i suoi musei, biblioteche, palazzi e piazze di maggior pregio, la propria difficoltà fisiologica di trasformarsi e i tic del potere politico. Ciò che cambia in Santo Stefano sono solo i nomi o le destinazioni d’uso, ma il volto del quartiere – quello vissuto e non turisticizzato – è sempre lo stesso da tempo immemore, talmente immutato in certi angoli che persino Carducci, uno dei suoi illustri abitanti, sarebbe in grado di ritrovarcisi.

Vogliamo parlare in questo caso di quella parte di città che un tempo si chiamava Galvani, stretta tra Strada Maggiore e via D’Azeglio e con lo sguardo rivolto verso i ricchissimi colli; quella parte che, oltre i Gazzoni Frascara, i conti Sassoli De Bianchi, i Prodi e un reddito medio che si aggira attorno ai 40k (più del doppio, per dire, di quello della Bolognina), vuoi per i suoi confini con la zona universitaria vuoi per alcune esperienze sociali autogestite che l’hanno abitata, conserva ancora i suoi angoli di popolo e una bella varietà umana.

Foto di Asia Giannelli
Foto di Asia Giannelli

In via Borgonuovo 4 una targa ricorda la casa natale di Pier Paolo Pasolini, “simbolo della riscoperta e dello sviluppo dell’identità della comunità omosessuale italiana“, si legge su uno dei siti del Comune. Una comunità che a Bologna ha avuto la sua grande storia all’interno di due casseri: quello di Porta Saragozza (poi trasferitosi alla Salara e diventato il Cassero LGBT Center) e quello di Porta Santo Stefano, sede di Atlantide, spazio occupato e autogestito per 17 anni da femministe, lesbiche, trans, gay e punk. Atlantide con le sue iniziative culturali, i suoi concerti strabordanti e le sue autoproduzioni fu uno di quei luoghi iconici capaci di rendere la città una delle capitali europee della controcultura. Fino al 9 ottobre 2015, quando lo spazio venne sgomberato e la sua porta murata. Quella data rappresenta l’inizio di una nuova era per la città, la conferma di una trasformazione politica che prese in gran parte forma proprio in Santo Stefano. Il quartiere amministrativo in quel momento era l’unico in mano al centro destra, e sebbene tutta la città fosse coinvolta in una serie di sgomberi violenti, fu proprio il suo salotto buono a imprimere con forza il nuovo messaggio: Bologna è cambiata.

Due anni prima era già successo a Bartleby in via San Petronio Vecchio, poi a trenta persone e bambini presenti in uno stabile occupato di via Solferino e l’8 agosto 2017 arrivò il momento di Làbas. Nonostante Làbas. Perché se Atlantide aveva acceso la parte reazionaria del quartiere, l’esperienza nata all’interno delle ex caserme Masini ne aveva invece evidenziato lo spirito trasversale e la voglia di aggregazione. I motivi li spiega Tommaso Cingolani, uno dei ragazzi che presero parte all’occupazione del 2012: «Eravamo consci delle caratteristiche in parte ostili del quartiere, ma la nostra sfida fu proprio quella: rompere gli schemi classici del “centro socialismo” andando oltre la chiusura preventiva nei confronti di persone ideologicamente lontane da noi. E credo che ci siamo riusciti».
Làbas lì ospitava, tra le tante cose, un partecipatissimo mercato contadino settimanale, laboratori per bambini e un dormitorio sociale con più di 30 persone in disagio abitativo; uno spazio attraversato da anime molto diverse capaci però di riconoscerne la funzione di utilità sociale. Motivo per cui lo sgombero scatenò le proteste anche da parte di molti residenti vicini sfociando in una delle manifestazioni più partecipate degli ultimi anni con oltre 15mila persone.

Oggi le Masini sono ancora vuote, è vuoto il cassero che ospitava Atlantide e sono vuoti gli spazi dove c’era Bartleby. Il premio resistenza va al Circolo Anarchico Berneri, dal 1972 nell’altro cassero di Porta Santo Stefano.

Ciò che cambia in Santo Stefano sono solo i nomi o le destinazioni d’uso, ma il volto del quartiere – quello vissuto e non turisticizzato – è sempre lo stesso da tempo immemore

Eppure, dicevamo, qualcosa capace di evocare un’atmosfera diversa da quella che si respira costeggiando gli austeri e misteriosi palazzi di via Santo Stefano o i soliti spot turistici rimane. Te ne accorgi, ad esempio, attraversando il Portico dei Servi durante la session settimanale di tango o le battle di freestyle, tra i personaggioni che frequentano il Bar Maurizio o nelle serate sui generis del Brexit e Miki e Max.

Ecco, uno di quei paesi nel quartiere sorge proprio attorno a Miki e Max, quell’imbuto chiamato ROC (Rialto, Orfeo, Coltelli, per molti il quartierino) dove tutti – dice Max – «prima o poi ci cadono dentro». Max, che lì ne ha viste di cotte e di crude prima di lasciare il bar a Simonetta e Alessandra, ne ha anche tantissime da raccontare. Tipo quella volta che un tale entrando un giorno da via Orfeo e l’altro da via de’ Coltelli gli urla “ciao faccia di merda” e se ne va; il tizio che va in bagno vestito in giacca e cravatta ed esce in gonna e i tacchi a spillo; o di quella partita a carte finita con il vecchio liutaio ritto sul tavolo a culo scoperto davanti agli occhi increduli di due distinte signore che bevevano il loro tè caldo.

Foto di Asia Giannelli
Foto di Asia Giannelli

“Laddove l’uomo comune vede una cartolina, l’uomo di talento vede una fotografia, il genio una meraviglia” disse qualcuno. Il genio in questo caso è Giorgio Morandi, la meraviglia è la sua via Fondazza dove visse tutta la sua vita catturandone i colori, rendendola immobile ed eterna come nel suo quadro “Cortile di via Fondazza”.
Anche qui tutti si riconoscono in una piccola comunità. Si fanno chiamare “fondazziani”: sono quelli della prima social street d’Italia che, oltre al gruppo facebook e una bacheca in strada, continua ad esistere essenzialmente grazie alla fitta rete di relazioni che passano attraverso gli artigiani, le osterie e le botteghe di alimentari gestite da pachistani.

Un’altra comunità, quella islamica, si ritrova nella moschea di via Torleone; in quella stessa via ogni anno prima della pandemia migliaia di persone di diverse provenienze e religioni celebravano la cena che interrompe il digiuno dei musulmani (Iftar) con la festa di strada più bella di sempre.

Poco più in là la chiesa del Baraccano col suo fascino decadente si sgretola davanti all’ultima piazza del centro che è ancora un enorme parcheggio in un contrasto evidente con la magnificenza verde dei vicini Giardini Margherita. Nel grande pratone tutto si mescola, infine, indistintamente: tra bonghi, schitarrate e racchettoni un anziano signore impreca per aver pestato una cacca di cane, un gruppo di adolescenti che ha fatto fughino canta in coro “Ricchi per sempre” di Sferaebbasta e qualcuno si sta già scaldando per la solita rissa organizzata sui social.

Paese che vai gente che trovi.


Grazie per le chiacchierate a Erika Bertossi, Simona Brighetti, Mirco Carati, Tommaso Cingolani, Massimiliano Giuliani, Paolo Emanuele Margherita, Federico Pirozzi