Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?
Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.
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C’è una data che segna profondamente l’immagine di Bologna: il 28 giugno 1982, quando il sindaco Renato Zangheri assegna, per la prima volta in Italia, una struttura pubblica a un’associazione omosessuale, il Circolo 28 giugno.
È un atto rivoluzionario in un momento di alta tensione politica che dona immediatamente a Bologna il volto di una città aperta alle differenze; e un atto fortemente simbolico poiché all’associazione viene assegnata una delle dodici porte di ingresso della città, Porta Saragozza, che non è una porta qualunque. Da Porta Saragozza passa, infatti, la processione che accompagna la discesa dell’immagine della Vergine di San Luca verso la Cattedrale di San Pietro, un luogo quindi di grande importanza devozionale che, dopo quell’assegnazione, diventa ovviamente oggetto di moltissime polemiche.
Fino al 2002, quando la giunta di centrodestra guidata da Guazzaloca propone uno scambio: lo spazio molto più grande e più centrale della Salara – che oltre a un’area esterna offriva anche ottimi vicini (Cineteca, MAMbo, Università, Soffitta) – in cambio della piccola Porta, che sarebbe poi diventata il Museo della Beata Vergine di San Luca.
Affare fatto.
Stiamo parlando de Il Cassero LGBTI Center, un’esperienza associativa con 40 anni di storia, assolutamente unica in Italia.
«Quella concessione di uno spazio pubblico nell’82 e successivamente la concessione dello spazio della Salara nel 2002 affermarono come Bologna fosse una città fortemente inclusiva su questi temi. Questo ha spinto molte generazioni a sceglierla come città in cui studiare ed elettivamente come città in cui vivere»
«Da quel bar della periferia di Los Angeles sui viali, una stanzetta di pochi metri quadrati dove con 200 persone veniva giù il posto – ricorda Bruno Pompa, direttore artistico dal 2002 al 2015 -, ci siamo trasferiti in un luogo che per la sua dimensione ci ha imposto un nuovo metodo di lavoro. Siamo allora partiti sin da subito con una programmazione di diversi giorni alla settimana a seconda del tipo di musica, soprattutto techno e house. Abbiamo così iniziato ad aggregare una marea di dj resident affiancandoli a quei nomi europei che all’epoca potevamo permetterci; parliamo di dj che non conosceva ancora quasi nessuno, ma per fortuna eravamo circondati da persone che sostenevano questo tipo di linea basata comunque sulla qualità. Il timore che le cose non funzionassero però restava e per stemperare la paura ci è capitato molte volte di pagare alcuni dj per stare in panchina e intervenire nel caso in cui l’ospite non fosse stato in grado di reggere la serata. I resident rimasero comunque sempre la nostra cifra identitaria: a loro affidavamo l’apertura e la chiusura, al centro c’era invece l’ospite internazionale che molto spesso però non voleva smettere di suonare, tipo Dj Koze che non la prese affatto bene. Ma quella era la nostra regola ferrea e non c’erano sconti per nessuno».
Ciò che caratterizza di più il clubbing del nuovo Cassero, però, è la sua capacità di unire il pubblico non in base ai propri gusti sessuali – come magari avveniva spesso in Porta Saragozza – ma per quelli musicali, facilitando quindi l’incontro tra le diversità. «All’inizio – continua Bruno – gli insulti, le piccole scintille che possono accadere tra etero e gay in uno spazio affollato venivano vissute come un’invasione di campo. “Perché dobbiamo far venire a casa nostra quelli che non ci vogliono?”, si domandavano in molti. Ma la sfida era proprio quella e col tempo il pubblico è diventato sempre più educato e questo ha creato un’atmosfera difficile da trovare altrove in Italia».
Il passaparola tra i dj corre veloce e in poco tempo tutti vogliono suonare al Cassero. «Una volta mi fece contattare Dj Hell lamentandosi che non l’avevamo mai chiamato. La ragione era ovviamente che non potevamo permettercelo, allora lui mi scrisse letteralmente che per i soldi gli potevo dare “la cifra che davo all’amica mia Ellen”. Questo fu il contratto. Da una difficoltà a trovare gli ospiti, passammo quindi a doverli arginare. Ma ciò ci permise di fare anche scelte meno scontate, tipo concentrarci su dj omosessuali o lesbiche oppure di incastrarci in alcune follie. Una volta, per dirne una, facemmo una serie di 18 flyer per 18 serate, flyer giganteschi in cartone ognuno dei quali doveva comporre con una lettera evidenziata in rosso contenuta all’interno del nome del dj una frase volgare contro la chiesa. Per cui, per 18 settimane, ho dovuto cercare dj che avessero la lettera che mi mancava. Le agenzie pensavano fossi matto, ma alla fine ce l’abbiamo fatta».
La “discoteca” e, di conseguenza, il bar diventano così il motore di un’economia che – in linea con lo statuto di un’associazione no profit come Il Cassero – non genera profitti personali ma si trasforma in un bene comune che sostiene tutte le altre attività, i progetti, i servizi e le persone che ci lavorano, con una gestione del bilancio affidata all’assemblea dei soci e delle socie (ovvero chiunque abbia la tessera del circolo) che scelgono per votazione diretta come reinvestire quelle risorse.
Un modello economico virtuoso che si traduce in servizi sociali, culturali e aggregativi aperti a tutti e a tutte e riconosciuti nel 2018 dal Comune di Bologna attraverso un Patto di Collaborazione, frutto di un lungo percorso di co-progettazione con l’assessorato alle Pari Opportunità che ha permesso di quantificare in maniera puntuale il contributo che il Cassero restituisce alla città in termini di servizi. Ovvero, tra i tanti: un gruppo Salute per informazioni sulle forme di prevenzione, un gruppo Scuola che lavora dentro con le classi e gli insegnanti contro forme di bullismo e discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere, servizi come il Centro di Documentazione (il più grande archivio del patrimonio culturale del movimento LGBT italiano), la consulenza giuridica gratuita, la consulenza psicologica con il Telefono amico, i gruppi volontari che lavorano nell’accoglienza delle persone che arrivano a Bologna, il Teatro Arcobaleno che è un esempio di educazione alle differenze fatto attraverso il linguaggio del teatro e della danza e molto altro.
E poi, ovviamente, Gender Bender, festival lungimirante che dal 2003 riflette sulle rappresentazioni dei corpi e delle identità legate al genere. «Grazie all’esperienza di Porta Saragozza – racconta il direttore artistico Daniele Del Pozzo – arrivammo alla Salara con un bagaglio di esperienze di programmazione culturale che avevano più di 10 anni: una era la Libera Università Omosessuale, appuntamenti settimanali in cui invitavamo studiosi, ricercatori, critici a fare delle lecture e lezioni ad hoc su gender studies, queer studies, cultural studies, ovvero un un bagaglio teorico per poter ragionare sui fenomeni culturali e artistici, sia in prospettiva storica che legati alla contemporaneità; l’altra era il festival di Cinema gaylesbico gemellato su Milano e Bologna. Unendo queste esperienze e contestualizzandole dentro la Manifattura delle Arti, in cui ha sede Il Cassero insieme alla Cineteca, il DAMSLab dell’Università e il MAMbo Museo d’Arte Moderna di Bologna, è scattata l’idea di un festival multidisciplinare dislocato in più luoghi della città con una proposta legata al contemporaneo. Un tema, quello del “gender”, che nel 2003 era per addetti ai lavori o per un ambito lgbt o femminista, ma che nel giro di pochi anni è diventato centrale nella discussione culturale del Paese e in ambito internazionale. Un progetto culturale che ci ha consentito di diventare in pochi anni un punto di riferimento culturale e artistico a livello europeo, grazie alle due edizioni di Performing Gender, i progetti formativi nel campo della danza contemporanea di cui siamo stati project leader, sostenuti dalla Unione Europea».
«Quella concessione di uno spazio pubblico nell’82 e successivamente la concessione dello spazio della Salara nel 2002 – conclude Daniele, che ancora oggi è responsabile dei progetti culturali del Cassero – affermarono come Bologna fosse una città fortemente inclusiva su questi temi. Questo ha spinto molte generazioni a sceglierla come città in cui studiare ed elettivamente come città in cui vivere, creando un vero e proprio flusso migratorio da diverse parti d’Italia e, indirettamente, un tessuto di persone e organizzazioni che hanno portato avanti quei valori che sono stati alla base della fondazione del Cassero LGBTI Center e del Circolo 28 giugno, ognuno con le proprie specificità e identità. È anche grazie a questa presenza di gruppi, collettivi e associazioni, che Bologna continua a essere ancora oggi un laboratorio straordinario dal punto di vista della produzione di immaginari legati alle identità di genere e di orientamento sessuale».