Ad could not be loaded.

Comunità temporanee, architetture, formati: la storia e le creature insolite di Xing

Eventi e luoghi che hanno cambiato le città: Bologna, capitolo 6

Scritto da Gloria Scianna il 10 giugno 2020
Aggiornato il 11 giugno 2020

Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?

Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.

Xing nasce nel 2000 come organizzazione e network culturale fondato da Daniele Gasparinetti, Silvia Fanti, Andrea Lissoni, Giovanna Amadasi e Federica Rossi. L’idea è quella di costruire una community interessata a certi settori di ricerca in maniera continuativa con una funzione: incrociare e far conoscere artisti che lavorano con discipline differenti tra di loro.

Per fare questo non esistono spazi adatti, o meglio, ogni spazio può essere quello giusto: dalle pagine stampate a quelle del web, dalle fabbriche dismesse alle vetrine di un negozio, dal museo a una palestra, da un lungofiume coperto di erba al foyer di un grande albergo. Pratica di nomadismo che non impedisce però di insediarsi nel 2003 in un luogo stabile. È il caso di Raum, piccolo spazio privato dalla fisionomia anomala, un “relitto fiammante” capace di ospitare una 70ina di persone alla volta, all”interno di un ex convento seicentesco in via Ca’ Selvatica a Bologna; o di Lima che, a Milano, per una manciata di anni, sarà un centro di riferimento per una nuova generazione di artisti.

Kinkaleri, F.I.S.Co. 2005 – foto di Cosimo Terlizzi

Esperienze che anticipano i tempi, quando ancora, in Italia, la proliferazione degli spazi no-profit deve ancora avvenire; luoghi gestiti per sottrarsi alle logiche di mercato, quello delle gallerie e quello dell’industria culturale, e fare in modo che una certa produzione, un certo modo di fare arte, musica, performance, editoria e altro, possano procedere senza dover garantire risultati e molto in fretta: “piattaforme immaginative ancorate in acque non agitate da perturbamenti mercantili”; ‘camere delle meraviglie’, dove l’accadere, oltre a mantenere proprio della camera la dimensione intima, consentiva nella prossimità di assistere alla nascita di creature insolite.

Lo spazio si presta al ripensamento del rapporto perfomer/pubblico per decostruirlo in molti modi. […]. Si tratta di “tutta una ri-auto-educazione su come non calpestarsi i piedi, come non finire in scena, come entrare e uscire dalla scena, come far accendere e spegnere gli spettacoli”

A Raum succedono cose che oggi definiremmo banali, ma che 15/20 anni fa non erano ancora passate né da queste parti né all’estero. Lo spazio si presta al ripensamento del rapporto perfomer/pubblico per decostruirlo in molti modi, ridefinendolo come radura dove tutti sono gettati e avvolti dalla penombra, o investiti dalla luce piena e senza finzioni, e dal suono che proviene da tutti i lati. Si tratta di “tutta una ri-auto-educazione su come non calpestarsi i piedi, come non finire in scena, come entrare e uscire dalla scena, come far accendere e spegnere gli spettacoli”.

Prince Rama, Netmage 2011 – foto di Silvia Boschiero

«Il fatto per esempio di sedersi per terra – racconta Silvia Fanti – non era una cosa scontata perché, a parte le stanchezze fisiologiche che uno poteva avere nel mondo dell’arte in cui per un attimo in una galleria per disperazione si siede, gli eventi dal vivo sia che fossero di matrice sonora, visuale o performativa erano comunque molto disegnati e in qualche modo parlavano anche di rapporti di forza: la frontalità, la sedia, la durata..».

La creazione di comunità temporanee, si accompagna alla “cura delle architetture” e la sperimentazione dei formati che le mettono in opera. Formati nuovi.

Alcuni operano sulla dimensione della durata, stirandola oltre ogni limite tollerabile; come le Hypnomachie, sessioni di ascolto – spesso live gestiti da figure anche importanti della ricerca sonora contemporanea – che iniziano alla sera per finire all’alba, o la maratona Musica per un giorno, tenuta nel 2017 da Roberta Mosca e Canedicoda, per la durata di 24 ore. “E qui ci si apre anche alle ricerche sull’attenzione riconoscendo una fisicità dell’accadimento, prendendo in considerazione anche il corpo di chi interviene, ospitando il suo sonno – costruivamo delle piattaforme/piscine in cui dormire. Non si tratta di sfide di resistenza, ma processi in cui immettersi.” (S.F.)
Altri operano sul raggruppamento, come i Microclimi (nati a Lima e interscambiati con Bologna) e i Camping, dove forme di agire collettivo trovano modo e spazio per insediarsi facendo un po’ come a casa propria, in una dimensione di auto-cura che coinvolge le proprie micro-scene, che non esclude il confronto ma privilegia la costruzione di situazioni.
Altri ridefiniscono il rapporto pubblico/privato (o sacro e profano, se si preferisce); come gli Archivi privati, che ospitano la presentazione di innumerevoli selezioni provenienti dalle nastro, disco e digi-teche di artisti e grandi conoscitori del suono; o Living Room dove l’azione performativa viene sottratta al climax di aspettative della forma spettacolo, per restituirla allo spazio rilassato dell’agire quotidiano: opera/attività («fino al punto che, in alcuni casi, sorgeva il sospetto che lì, non accadesse proprio nulla»).

Raum – foto di Riccardo Benassi

Lo stesso formato “festival” con Xing prende tutto un altro significato. È quello che succede dal 2001 al 2011 con Netmage, festival nato per fornire uno spaccato dei live media, senza schiacciarsi né all’interno del mondo visivo né all’interno del mondo sonoro.
Netmage non è, infatti, né il festival grande vetrina né l’evento rivolto a nicchie di operatori: è piuttosto, come poi saranno tutti gli eventi di Xing, “un display o un’impaginazione – come li definisce Daniele Gasparinetti – risultato del passaggio tra macro contenitore categorico (in quel caso i live media) e il contenitore reale (luogo)”.

Il Live media è del resto un’invenzione di Netmage, termine che più che definire una pratica, serve per istituire una piattaforma capace di ospitare pratiche eterogenee che stanno in quegli anni andando a definirsi, tra post-cinema, digital arts, multimedia environments e tutte le loro interazioni, con sensibilità e immaginari musicali e sonori: “Netmage – scriveva Andrea Lissoni – è sostanzialmente una mostra live […] che si occupa di invitare degli artisti specializzati, anche attraverso una call internazionale, a produrre dei lavori di immagini e suoni della durata tra mezz’ora e 40 minuti circa che in quel tempo evochino o raccontino, un mondo o illustrino una vicenda, creino, in una parola, un’opera”.

Dopo le prime cinque edizioni itineranti in diversi luoghi della città, dal 2006 al 2011 Netmage si stabilisce principalmente a Palazzo Re Enzo e diventa un punto di riferimento internazionale, ospitando più di duecento artisti tra cui Mika Vanio, Pan Sonic, Societàs Raffaello Sanzio, Christian Fennesz, Tarwater, Thomas Köner, Jan Jelinek, Carsten Nicolai, Arto Lindsay, Keiji Haino, Black Dice, Cluster, James Ferraro e molti altri.

Enrico Ghezzi, Nico Vascellari e Emiliano Montanari a Raum – foto di Silvia Del Frate

“L’interesse del festival – raccontava Lissoni – è anche quello di lavorare sulla Liveness, sulla condizione cioè dell’essere viva della immagine, che riguarda non solo la gestione in diretta delle immagini su più schermi manipolate dal vivo attraverso dei mixer, attraverso laptop o altri strumenti che possono essere i più svariati, ma vivo è anche il contesto in cui queste immagini vengono presentate e cioè, la grande situazione di piazza o di arena in cui il pubblico si siede, cammina, prende una postura di visione a secondo dell’oggetto che ha di fronte. Si genera quindi una sorta di liveness che è apparentata da una parte alla tradizione del cinema, dall’altra a quella della pratica del teatro e a quella dei concerti. Con la possibilità, per il pubblico, di muoversi e circolare nello spazio liberamente”.

Netmage è l’unico caso in Italia e forse anche all’estero che dissimula una ricerca primariamente visiva, dietro all’onda di immaginario montata in quella grande stagione dei festival di musica elettronica, che sono stati gli anni zero.

Lavoro sulla liveness che ritorna anche in F.I.S.Co. Festival Internazionale sullo Spettacolo Contemporaneo curato da Silvia Fanti (2001-2011) che si concentra su un programma trasversale di performance, spettacoli, installazioni, progetti speciali, happening, momenti di visione e incontri, in vari luoghi della città. F.I.S.Co. è  una galleria di “lavori  di  danza  che  non  danzano” e di “filosofi del movimento” che passando per le arts  vivents (o performing arts) danno luogo a  strane invenzioni di mondi-scena e di mondi-vita.

Muna Mussie, Live Arts Week 2013 – foto di Gaetano Cammarota

Quindi, da un lato Netmage con un pubblico più “sound-visual-oriented” dall’altro F.I.S.Co. più “performance-oriented”. Ma il livello successivo arriva nel 2012 con Live Arts Week, fusione di quelle due esperienze che oltre a connettere artisti e promuovere l’intreccio tra discipline e forme di espressione, offre momenti di coabitazione di pubblici di diversa provenienza. Esaurito il discorso sui live-media, le live arts diventano la sintesi perfetta di tutto ciò che ruota intorno alla presenza, alla dimensione performativa e all’esperienza percettiva di suoni e visioni. E la scelta di utilizzare il termine ‘settimana’ rompe con la concezione di un festival visto come punta consumistica della vita culturale di una città.

Dopo la creazione delle comunità, con Live Arts Week Xing offre alle comunità stesse la possibilità di incontrarsi in un palinsesto di accadimenti sparsi nella città. E con un nome che accompagna l’evoluzione biologica delle diverse edizioni: Gianni Peng, che sa di Cina, ma non è cinese (ricorda qualcosa…).

“Perché intessere un discorso sulla coesistenza o la comunità? – si chiedeva Lucia Amara per la prima edizione – , se Peng semplicemente ci dice di un vicinato, una sorta di vicinato in cui qualcuno, però, ha stipulato contratti di cui non tutti sono a conoscenza. Che non tutto è condiviso allo stesso modo. O semplicemente che non tutto è condivisibile. C’è una parola da questo luogo, una parola più conveniente e opportuna, ed è coabitazione. Perché di per sé abitare è la forma basic dello stare. E il prefisso –co non può più aggregare alcuna forma perenne ed eterna, ma prefigge una relazione da rimettere in gioco tutte le volte. Peng è futuribile”.

Segui l’evoluzione di DA ZERO sul nostro profilo Instagram.