Martedì 6 ottobre il Teatro Arena del Sole inaugura la stagione 2020-2021 con Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht, con Lino Guanciale e la musicista Renata Lackó. «Un vero testo della crisi, – scrive Guanciale – un vero testo generato da uno stato d’emergenza. Una rappresentazione vivida della balìa cui sono soggette le illusioni di stabilità della civiltà occidentale, soprattutto quando esse servono, coscientemente o meno, a nascondere sotto il tappeto le miserie e le fragilità di un mondo abituato a disprezzare la dialettica come strumento di rigenerazione della democrazia».
Per l’occasione ritorna anche la nostra rubrica creata in collaborazione con ERT Fondazione per raccontare alcuni degli ospiti della stagione oltre il teatro stesso, indagando la musica che ruota attorno allo spettacolo, quei brani che sono stati in certi casi fonte di ispirazione o semplicemente hanno accompagnato lo sviluppo dell’opera, durante la scrittura, prima e dopo le prove, in cuffia, in macchina, a casa, al lavoro.
Ecco qui sotto cosa ci ha proposto Lino Guanciale e perché.
—
The Cure – Killing an arab,
Alla base della scelta di Dialoghi di profughi c’è una riflessione: [quella] sulla violenza della Storia. Per me, uno dei modelli narrativi delle conseguenze culturali, antropologiche e sociali della violenza della Storia è questa canzone dei Cure, Killing an arab, che è a sua volta ispirata a Lo Straniero di Camus del quale replica la scena fondamentale: quella dell’omicidio dell’altro, del diverso. Ogni volta che mi trovo a riflettere sulla violenza delle tempeste e delle grandi discontinuità che la Storia propone, e non solo – anche la natura in qualche maniera – un processo nel mio cervello si attiva, dei modelli si richiamano alla memoria e tra questi c’è senz’altro questa canzone, che per altro presenta un mélange melodico – se così si può chiamare il post punk dei Cure – tra Oriente e Occidente.
______________________
Louis Armstrong – Mack the knife, Kurt Weill e Bertolt Brecht
Parlando di Brecht – nume tutelare, fondamentale per il sottoscritto – è impossibile non richiamare alla memoria le melodie, o le dissonanze, di Kurt Weill. Mi ha sempre molto divertito questa interpretazione di Louis Armstrong di Die Moritat de L’opera da tre soldi di Brecht. A me piacciono i travestimenti, le traduzioni, le re-interpretazioni anche radicali di un testo originale. In questa interpretazione di Armstrong quello che viene fuori è quanto un testo abbia da dire per diversi sistemi linguistici e codici culturali. Anche questo è immagine dello sradicamento. Quindi fra i modelli che si sono attivati una volta che ho cominciato a pensare a Dialoghi di profughi, più che L’opera da tre soldi cantata da Lotte Lenya, o da grandi interpreti anche della tradizione tedesca o europea, mi è venuta in mente questa versione piena della storia e dell’attitudine melodica del mondo afroamericano, sempre muovendosi sulle coordinate dell’alterità.
______________________
Sigur Ros – Hoppipolla
I Sigur Ros sono un gruppo cult per la mia generazione. Di loro ammiro moltissimo il fatto di aver letteralmente creato una loro lingua. La parola stessa – per quanto già l’islandese sia fisiologicamente lontano dal nostro ceppo linguistico latino – è indistinguibile quasi, delle volte lo diventa programmaticamente per volontà dell’autore dei testi. Questa canzone per me ha significato la definizione del paesaggio geografico e, in qualche modo anche metafisico, in cui si muovono i personaggi di Dialoghi di profughi: nel senso che se penso al Nord Europa una delle primissime cose che mi viene in mente è questa canzone dei Sigur Ros.
______________________
David Bowie – Heroes
David Bowie scrisse Heroes durante – o immediatamente dopo – un soggiorno lungo, un radicamento vero e proprio a Berlino. È una canzone figlia della guerra fredda e della presenza del muro. Parla di un eroismo duale, di una storia d’amore ai piedi di quella rappresentazione della violenza della Storia – torniamo su questa idea che è stato il muro di Berlino – un eroismo duale di due amanti che sfidano la ritorsione che tocca a chi si avvicina troppo al limite. Io l’ho sempre letta come estremamente vicina ad alcune cose del mondo brechtiano e, in particolare, di Dialoghi di profughi perché Dialoghi di profughi è anche un manifesto di rifondazione delle relazioni e, dunque, della dialettica storica a partire dal rapporto Io/Tu, dalla cellula minima relazionale: due persone che si incontrano e iniziano a parlarsi e confrontarsi.
______________________
Mark Warshawsky – Mark Warshawsky (canzone Yiddish presente nella colonna sonora di Schindler’s list)
L’ultima traccia, Oyfn Pripetshik, è la lampadina che nel mio cervello si accende ogni volta che penso alla musica Yiddish, quella di tradizione ebraico-ashkenazita est europea. È parte integrante dello spettacolo e in qualche modo è il campo musicale che più si frequenta all’interno della messa in scena. È la prima melodia che mi si para all’orecchio ogni volta che penso all’Yiddish perché questa canzone, scritta alla fine del XIX secolo, è di diritto nel paesaggio sonoro condiviso riguardo la seconda guerra mondiale e la Shoah, anche se circolava in Europa già da mezzo secolo prima della furia nazista. Io ne venni a contatto guardando da piccolo il film Schindler’s list – come credo molti altri ce l’avranno familiare all’orecchio perché viene da lì. Racconta il testo di un insegnante di Torah di una scuola ebraica che insegna l’alfabeto ai suoi studenti. Gli racconta come attraverso l’apprendimento di quelle lettere essi potranno attingere alla storia del loro popolo, che è una storia scritta con le lacrime. Effettivamente non so immaginare una melodia che, almeno per me, – sarà dunque quella memoria pre-adolescenziale della visione del film di Spielberg – racconti di più la furia insensata che sconvolse l’Europa e, anche, i destini immaginari – ma neanche tanto [immaginari] – dei personaggi di Dialoghi di profughi alla metà del secolo scorso.