Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?
Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.
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“Il Covo viene prima dell’io”: era la regola ferrea di Max Bonini. Bolognese introverso e generoso, nonostante il suo disinteresse per la politica e la propria visione nichilista del mondo, Max era convinto che il Covo fosse un locale comunista: prima di tutto lo spirito di gruppo, prima dell’io, appunto. Un’attitudine che si basava sui valori fondativi di un’esperienza nata una ventina d’anni prima in una Bologna completamente diversa, nel pieno della crisi sociale post-77.
Max, stroncato da un infarto a soli 40 anni nel 2010, rimane per tutti colui che, verso la fine degli anni 90, trasformò il Covo nel locale all’inglese che conosciamo oggi, tra i primi in Italia a chiamarsi “club”, con una programmazione artistica di alto livello che alternava nella stessa serata concerti e dj set.
«Max – racconta Daniele Rumori, altro socio storico del club – è stato sicuramente “l’inventore” del Covo moderno ed è stato il primo a cui le mura del Covo hanno iniziato a “stare strette”».
Ma per capire il suo motto e l’evoluzione del club di viale Zagabria, bisogna fare un salto nel tempo e tornare nel 1980.
Mentre l’eroina continuava a mietere le sue vittime e il punk era già entrato a gamba tesa nella scena musicale, a San Donnino, una sorta di villaggio al confine tra il quartiere San Donato e il Pilastro, un vecchio casolare ristrutturato dal Comune diventa per alcune comitive una chiara occasione di salvezza.
«Cercavamo uno spazio – racconta Gianni “Yanez” Carati – che potesse aggregare le persone senza il solito filtro della chiesa o dei partiti. Il Casalone era perfetto, ma vista l’impossibilità di usufruirne in autogestione l’unica via era quella dell’occupazione. Facemmo prima tre giorni di concerti nel parco lì davanti – ci suonò anche la band del liceo di Luca Carboni, i Teobaldi Rock – e dopo occupammo lo stabile. Eravamo ben sorvegliati, ma nessuno intervenne, probabilmente perché in quegli anni il Partito Comunista stava cercando di recuperare il contatto con le fasce giovanili. E noi avevamo tutti non più di 18 anni. Comunque, nonostante questo e nonostante le pressioni di alcuni attivisti di estrema sinistra più grandi di noi, riuscimmo a imporci per ottenere l’autonomia che volevamo. Dopo qualche mese il Presidente del Quartiere si fidò e ci concesse di regolarizzare la nostra presenza nel Casalone attraverso una firma. All’epoca si faceva così, bastava una firma su un foglio ogni sei mesi per ottenere quella che oggi chiamano “convenzione”».
«Il Covo è sempre stato un locale multi-generazionale. Ci sono ragazzi che vanno al Covo oggi i cui genitori si sono conosciuti lì. Ma il problema è che invecchiando si fa fatica a interpretare i gusti di chi ha 15/20 anni di meno. Per questo il locale ha avuto vari cicli […]. Ma senza mai scordarsi della regola più importante: il Covo viene sempre prima dell’io»
Il Casalone diventa, quindi, un “centro di aggregazione giovanile” – come recitava uno dei primi manifesti – caratterizzato sin da subito dall’intransigenza contro le droghe, anche quelle leggere, proprio per dare un segnale di discontinuità in un contesto in cui a 13-14 anni si può già finire vittime dell’eroina. Un circolo ricreativo, in altri termini, a servizio del quartiere, aperto dalle 7 di mattina fino a notte, dove però al di là dello sport e delle attività ludiche l’interesse principale resta quello della musica. Al Casalone ci sono, infatti, sopratutto due sale prove ed è lì dentro che inizia a crearsi un flusso continuo di musicisti: «Per qualche mese – ricorda Yanez – venne anche a provare un americano che poi scoprimmo essere Dave Grohl dei Foo Fighters, che in quel periodo abitava in città con la fidanzata bolognese».
Nasce così l’idea di creare un locale musicale a tutti gli effetti: «I viaggi a Londra nei primi anni 80 ci avevano segnato e volevamo mettere su un posto dove si potesse fruire quella musica lì. Quando vidi il film Quadrophenia dissi, “cazzo ci vuole un locale così anche per noi”. A Bologna, tra l’altro, c’erano già una valanga di gruppi che suonavano, ma molti posti duravamo giusto qualche mese. Noi invece volevamo creare qualcosa di più stabile, che sarebbe durato per sempre».
Il successo arriva con la discoteca del giovedì e grazie ai suoi proventi si aggiungono molti altri concerti affiancati sempre ad altri eventi di carattere sociale e politico. Come il primo raduno nazionale di skinheads nel 1987,organizzato da Steno dei Nabat, che provoca un delirio di proteste – «c’era l’incapacità politica di capire che non erano orde di nazisti, ma skinheads di sinistra» -, una delle prime manifestazioni gay nazionali a cura del Cassero o un convegno sullo sciopero dei minatori nell’Inghilterra della Tatcher: «Paul Weller, Billy Brag e Chris Dean dei Redskins formarono in quegli anni il Cuneo Rosso, un’organizzazione di sinistra che appoggiava lo sciopero e noi con dei bonifici gli donammo diversi milioni di lire. Ci chiesero per questo di poter venire in visita e perciò organizzammo un convegno con i sindacalisti di Arthur Scargill, leader dell’Unione Nazionale dei Minatori».
«Era tutto gratuito, tutto, e tutto lavoro volontario: i dj, i fonici, la vigilanza, le pulizie, nessuno veniva pagato. Avevamo voglia – racconta Dedu, altro storico fondatore – di fare delle feste con la musica che non riuscivamo ad ascoltare altrove e di chiamare i gruppi che ci piacevano, così è nato tutto. E da lì ci ritrovammo ad essere uno dei locali più frequentati della città. Leggenda racconta che anche Bob Dylan quando suonò a Modena volle venire al Covo, ma lo trovò chiuso. E io, che sono tifoso del Bologna, non potrò mai scordare quel pomeriggio in cui durante il concerto dei Refused mi ritrovai davanti Kennet Andersson».
L’idea di chiamarlo Covo viene a Yanez: «All’inizio eravamo tutti nel sottotetto – che dopo sarebbe diventato quel Sottotetto che oggi è a San Sisto -, poi ci diedero la possibilità di utilizzare anche il piano di sotto che, ispirato dal film di Fritz Lang Il covo di contrabbandieri, proposi di chiamare Il Covo».
Quindi sopra il reggae del Sottotetto, sotto il rock del Covo e così per alcuni anni, con periodi di occupazione intermittenti, fino ai primi anni 90, quando, dopo alcuni qui pro quo con l’Amministrazione il Sottotetto si trasferisce nell’attuale sede e al Covo viene concesso di rimanere lì dov’è con una convenzione pluriennale.
È l’inizio di una nuova fase, più matura, con il locale che si dota di una struttura organizzativa per comunicare professionalmente con le agenzie di booking e il tiro della programmazione artistica che si alza visibilmente con concerti come quello degli Sterelolab in formazione completa nel 1995 o dei Mogwai nel 1998 rimasto nelle memorie per le mura della sala strapiena grondanti condensa dopo il live.
Per la scena underground il club diventa sia un punto d’arrivo che punto di partenza, per la capacità di intercettare gli artisti nel momento giusto, poco prima del grande successo o anche a un passo dell’esaurimento dell’hype.
La lista sarebbe lunga, ma è giusto citare alcuni concerti segnanti: i Black Heart Procession organizzati insieme a Giovanni Gandolfi (oggi direttore artistico del Locomotiv per molti anni anche lui dentro al Covo) e Tiziano “Bob Corn” Sgarbi, doppio sold out in un’epoca in cui non esisteva la prevendita; la prima data italiana dei Libertines, finita alle 4 di notte, a locale chiuso, con Pete e Carl che si prendevano a calci e pugni di fronte ai pochi rimasti per fare le pulizie; l’ultimo concerto dei Franz Ferdinand in un piccolo club, “bookati” subito dopo il primo singolo prima di diventare rockstar, con più di mille persone lasciate fuori; stessa storia per i The XX con una fila di gente che arrivava in San Donato e la band che con il tour bus rotto a Monaco prese un treno per Verona e un regionale per Bologna, per poi salire subito sul palco senza nemmeno un soundcheck; la doppietta Mumford & Sons e The Brian Jonestown Massacre, rispettivamente il 30 aprile e l’1 maggio 2010; i dj set in contemporanea e in sale distinte di Mike Joyce degli Smiths e Peter Hook dei Joy Division/New Order nel 2012. Ma anche tanti flop assurdi con non più di quaranta persone davanti a band che subito dopo avrebbero spopolato come Grizzly Bear, Beach House, Thee Oh Sees, Father John Misty, The Gossip.
«Il Covo – racconta Daniele Rumori – fu una delle ragioni per cui mi trasferii a Bologna da Ancona. Sfogliavo i giornali da Rumore a Rockerilla e leggevo e sognavo le band che passavano di lì. Attraverso un giro di amicizie diventai amico di Max Bonini, e cominciai a organizzare qualche serata con l’etichetta che avevo fondato, la Homesleep. Il locale era già molto diverso da quello che avevano fondato Yanez e Dedu, ma il lunedì c’erano ancora le assemblee aperte a tutti che frequentavo anche io. Con l’etichetta non ci stavo dentro economicamente e Max mi propose di lavorare lì. Max diceva sempre che l’atmosfera del gruppo di lavoro era fondamentale per far funzionare le cose. Se noi ci divertivamo, il pubblico lo percepiva e si divertiva con noi. Max poi – continua – se ne è andato per un infarto, a soli 40 anni, il 20 gennaio 2010 a pochi mesi dal nostro 30nnale. La sua morte è stata una bella mazzata, ma è stato anche uno stimolo incredibile per ripartire. Ora il peso del locale, e dei suoi 30 anni di storia, era sulle nostre spalle, ma stavamo attraversando un brutto periodo. Mai e poi mai avrei voluto essere ricordato come uno di quelli che avevano portato il Covo alla chiusura. Ecco, era il momento di metterci in gioco noi, (Marzio, George ed io), per la prima volta da soli, senza quella che fino ad allora era stata la nostra guida».
Ed è proprio dopo la morte di Max che il suo sogno si realizza con il Covo che prende il volo oltre le proprie mura, nella gestione estiva del Quadriportico di Vicolo Bolognetti dal 2012 al 2015, nella rassegna indimenticabile presso la chiesa di Villanova di Castenaso e con tantissimi concerti organizzati nei teatri e in altri spazi della città.
Oggi, 2020, sono quarant’anni che il Covo esiste. Quasi tutti quelli che hanno avuto un ruolo importante, in qualche modo continuano a farne parte. Gianni e Dedu, i due fondatori, rimangono un punto di riferimento per tutti, sono i fratelli maggiori a cui si fa una telefonata quando si ha un problema. Ma si può dire lo stesso anche di Ferruccio dei Cut, di Arturo, storico dj, o di Bobby che per una vita è stata la prima persona che incontravi nella sua postazione alla cassa. Dei “vecchi” però oggi ci sono solo Daniele Rumori e George Koulermos, ex Technogod ed ex gestore del mitico Kryptonight di Baricella, dove suonarono i Nirvana nel ’91.
«Il Covo è sempre stato un locale multi-generazionale – dice Daniele. Ci sono ragazzi che vanno al Covo oggi i cui genitori si sono conosciuti lì. Ma il problema è che invecchiando si fa fatica a interpretare i gusti di chi ha 15/20 anni di meno. Per questo il locale ha avuto vari cicli, con diversi cambi di persone, ed è quello che sta succedendo di nuovo da qualche anno. Oggi il Covo ha la faccia di James, Marco ed Enrico e del gruppo di lavoro che hanno creato, ragazzi giovani che hanno l’energia che avevamo noi 15 anni fa. Portano avanti il club seguendo, giustamente, il proprio credo e la propria visione. Ma senza mai scordarsi della regola più importante: il Covo viene sempre prima dell’io».