All’alba del 26 febbraio 2023 un barcone di legno partito dalla Turchia, con a bordo circa 180 persone provenienti principalmente da Afghanistan, Pakistan, Iran e Siria, si schiantava contro una secca a pochi metri dalla riva di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone. Morirono 94 persone, tra cui diversi bambini e bambine. Le responsabilità della tragedia, anche se ancora non accertate per via giudiziaria, sono ormai abbastanza chiare: secondo le ricostruzioni più attendibili, infatti, Frontex (l’Agenzia europea di controllo delle frontiere) aveva segnalato l’imbarcazione, ma la Guardia di Finanza avrebbe inizialmente trattato il caso come un’operazione di polizia contro gli scafisti, anziché come un’emergenza umanitaria, facendo perciò tardare i soccorsi. Ma c’è un altro dettaglio importante: in quelle ore, in quella parte di mare, non c’erano le navi delle ONG che operano nel Mediterraneo, a causa delle limitazioni imposte dal decreto Piantedosi approvato dal Governo Meloni poche settimane prima, a gennaio 2023. Il decreto prevede, infatti, che le ONG debbano dirigersi subito verso il porto assegnato dopo ogni salvataggio, rendendo praticamente impossibili ulteriori operazioni di soccorso. Più in generale, i porti assegnati sono quasi sempre molto lontani, anche a cinque o sei giorni di navigazione, costringendo ad allungare i tempi del ritorno verso le rotte migratorie.
La strategia di mettere i bastoni tra le ruote alle ONG va di pari passo con la loro criminalizzazione avviata soprattutto durante il governo giallo-verde dall’allora Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, con continue accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e complicità con i trafficanti di esseri umani sfociate in vari provvedimenti giudiziari. Era però ancora al governo Paolo Gentiloni quando, dopo i primi vergognosi accordi con la Libia per bloccare i flussi migratori, fu sequestrata per la prima volta una nave, la Iuventa dell’organizzazione tedesca Jugend Rettet. Solo a maggio del 2024 si è concluso il processo contro dieci dei suoi operatori umanitari: tutte le persone coinvolte sono state assolte. Tra queste anche Miguel Duarte, civil sea rescuer nel Mediterraneo centrale dal 2016, che insieme agli altri imputati ha rischiato fino a venti anni di carcere.
Miguel, portoghese, è un fisico matematico che fa ricerca sui buchi neri e insegna all’università. Oggi lavora come capo missione a bordo delle navi della Sea-Watch ed è lì che ha incontrato Enrico Baraldi e Nicola Borghesi, fondatori della compagnia bolognese Kepler-452 imbarcatisi l’11 luglio 2024 dal porto di Messina come testimoni di una missione di soccorso.

Insieme ad altri operatori e operatrici dell’ONG tedesca e di Life Support, la nave di EMERGENCY, Miguel è uno dei protagonisti di A place of safety. Viaggio nel Mediterraneo centrale, il nuovo spettacolo di Kepler-452, prodotto da ERT che ha debuttato al Teatro Arena del Sole di Bologna il 27 febbraio 2025, non a caso il giorno dopo il secondo anniversario della tragedia di Cutro.
A place of safety prosegue in modo diverso il lavoro iniziato con Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto, che portava in scena la lotta degli operai del Collettivo di fabbrica GKN. Anche in quel caso, Baraldi e Borghesi avevano trascorso alcuni mesi tra il 2021 e il 2022 nella fabbrica occupata di Firenze a seguito del licenziamento in tronco di 422 operai dal quale si è poi sviluppato un laboratorio politico che è diventato un modello per le lotte sul lavoro del presente post-capitalista.
«Quell’esperienza ci ha fatto venire voglia di ampliare ulteriormente lo sguardo – racconta Borghesi. Ci siamo chiesti come le scoperte fatte dentro il perimetro stretto di quella fabbrica avrebbero reagito incontrando uno spazio enorme, spaventoso come il mare».
La missione dei protagonisti di A place of safety, ovvero delle navi delle ONG, infatti, non è solo salvare vite, ma occupare. Occupare quel Mediterraneo che oggi è la grande industria dei valori europei e delle retoriche politiche, così come gli operai della GKN hanno occupato la propria fabbrica.
In questo caso, però, la nave lascia il mare per occupare un teatro. Il tentativo è quello di riappropriarsi di un pezzo di produzione della narrazione, proponendo un’ alternativa alla logica della polarizzazione, a quelle immagini sempre uguali che non ci mostrano più persone, ma qualcosa di molto più vicino a quelli che Timothy Morton chiama iperoggetti, fenomeni talmente complessi – come anche quello della migrazione – da riuscire soltanto a suscitare una sensazione di schiacciante impotenza che si risolve il più delle volte o nella compassione passiva o nell’indifferenza ostile.
Come raccontare, quindi, qualcosa così difficile da comprendere?
In un film uscito nelle sale qualche mese fa, La storia di Souleymane, di Boris Lojkine, il protagonista Abou Sangare, giovane immigrato guineano che lavora come rider a Parigi, in vista del colloquio che dovrà sostenere per ottenere l’asilo, ripassa continuamente i dettagli di una storia inventata cercando di adeguare il racconto a un’immagine stereotipata di una persecuzione politica nella profonda Africa vista da Occidente. È quello che gli ha consigliato un altro guineano che, insieme ad altri, Abou paga per imparare cose che non ha mai vissuto: solo la storia giusta può salvarli. È, infatti, proprio sugli stereotipi omologanti che si basano spesso i criteri che determinano un timbro sul permesso di soggiorno o, al contrario, il respingimento. Certe storie personali, pur tragiche, sono invece troppo fuori dagli schemi, troppo sui generis per poter essere accolte nei rigidi protocolli burocratici che non ammettono sfumature. Abou ha bisogno, quindi, di un racconto che chi ascolta è già preparato a ricevere.
Il rischio davanti a un pubblico è lo stesso.
«Fin dall’inizio – ammette Baraldi – abbiamo cercato di seguire, o inseguire, alcune delle persone soccorse. Non è stato facile, sia perché il Mediterraneo centrale è un posto assurdo per incontrare qualcuno sia perché sono spesso storie molto complicate. Ma in parte ci siamo riusciti. Una di quelle persone per un periodo ha lavorato insieme a noi, poi è sparita. L’ultimo messaggio che abbiamo ricevuto era un vocale in cui ci diceva che stava cercando disperatamente di raggiungere Foggia per un impiego agricolo. È lì che abbiamo capito che l’intenzione iniziale di esporre davanti a un pubblico una persona appena arrivata in Europa fosse totalmente sbagliata e ingiusta. Quindi è nata l’idea di spostare il punto di vista e parlarci tra di noi, parlare di noi, e farlo proprio in quanto europei, portando l’analisi sull’Europa vista dal mare.»
Dopo mesi di interviste, una residenza a Lampedusa e viaggi su e giù per l’Italia, i due registi hanno, quindi, costruito una drammaturgia collettiva mettendo insieme un cast di testimoni che potessero riportare una storia – la propria storia – sul Mediterraneo.
Insieme a Miguel Duarte, le altre persone scelte sono: Flavio Catalano, il più anziano dell’equipaggio, ex ufficiale in pensione della Marina Militare che oggi è deck team leader di Life Support, EMERGENCY (colui che aiuta le persone a passare dal gommone di salvataggio alla nave); Giorgia Linardi, giurista e portavoce di Sea-Watch, sulle navi da quando, appena finita l’Università, si imbarcò sulla Sea Watch 1, un ex peschereccio di gamberetti del 1917 che – ricorda – “andava letteralmente a passo d’uomo”; Floriana Pati, una delle tante infermiere che hanno abbandonato il sistema sanitario nazionale in seguito a un burnout, oggi nel medical team di Life Support di EMERGENCY; e José Ricardo Peña, elettricista nato in Texas e figlio di immigrati messicani – suo padre attraversò illegalmente il confine – che sulla Sea-Watch è arrivato dopo essersi imbattuto in un annuncio di lavoro sponsorizzato su Instagram.
«Il teatro – afferma Giorgia Linardi – ci ha permesso per la prima volta di spogliarci di quei codici che siamo costretti a utilizzare per rispondere e reagire a un linguaggio violento e aggressivo e utilizzarne di nuovi per provare a riportare le cose in maniera diversa. Quello che facciamo durante lo spettacolo è provare a non nasconderci dietro le contraddizioni, dietro quello che chiamiamo “white saviorism”, tenendo però ben presente che siamo noi quelli nelle condizioni di attrezzarci, prendere una nave e partire».
Nell’arco di quasi cinque settimane di navigazione, la crew che ha ospitato a bordo Borghesi e Baraldi, ha soccorso 156 persone, sbarcate poi nel porto di La Spezia (il “place of safety”) prima di tornare in Sicilia, al termine della missione, il 5 agosto.
Borghesi, che sulla nave in quei giorni teneva una corrispondenza per Il Fatto Quotidiano, verso la fine dello spettacolo racconta il momento del ritorno, a missione finita: «Per la prima volta dopo molti giorni, davanti a me, le luci dell’Italia non le trovo più rassicuranti, per niente. Il mare dietro di me non è rassicurante per niente. L’unico posto sicuro è il ponte di questa nave.»
Ma è, come al solito, proprio alla vista della riva che le persone salvate iniziano a festeggiare.
«Forse li stiamo illudendo – dice Floriana -, gli stiamo facendo credere che tutto il mondo a terra è come su questa nave. Cosa faccio? Glielo dico?»
Dubbi, paure, confusione: quasi tutta la narrazione va avanti in parte come diario di bordo, in parte come diario personale, e l’analisi di coscienza di ognuno di loro diventa anche la nostra.
“Ogni generazione – scrive ne I dannati della terra il filosofo martinicano Frantz Fanon – deve, in una relativa opacità, scoprire la propria missione, compierla o tradirla.” Ma qual è questa missione nel nostro caso?
Tra i maggiori pensatori della modernità post-coloniale, Fanon grazie alla sua capacità di raccontare la condizione del colonizzato, è il fantasma che si aggira nel lavoro di Kepler-452, ed è dal suo sguardo che si sviluppano tutte le questioni che ruotano proprio attorno a quel white saviorism accennato da Giorgia Linardi e ai dubbi dei protagonisti.
Così, a un certo punto, anche Fulvio Catalano racconta di un signore che, dopo averlo guardato negli occhi, gli dice: Grazie di avermi salvato la vita. «È una frase che non mi sono mai sentito dire in vita mia. Perché mi fa tanto piacere aver ricevuto questo ringraziamento? – si chiede. Perché mi ha detto che gli ho salvato la vita o perché la sua vita è salva? O forse c’è una terza opzione: mi sta dicendo che c’è stato un momento in cui la sua vita era nelle mie mani. Io ho avuto nelle mie mani il potere della vita di un’altra persona. E se fosse questa la cosa che mi piace? Ma allora perché sono qui?».
Liberarsi del dna dell’oppressore parrebbe quasi un’impresa impossibile, ma una soluzione la propose Jean-Paul Sartre proprio nella prefazione a I dannati della terra, in cui scrisse: “Uccidendo un europeo si prendono due piccioni con una fava, eliminando in una volta oppressore e oppresso: lasciando un uomo morto e l’altro libero”. Quell’invito alla violenza e al terrorismo, scaturito dal suo aperto schieramento a favore del Front de Libération Nationale durante la guerra d’Algeria, era frutto di una convinzione: i dannati sono anche coloro che non possono sfuggire alla violenza che essi stessi hanno imposto.
Quando, alla fine, l’ultimo naufrago è finalmente a terra e la nave riparte, tutto appare più chiaro: si tratta ancora una volta di noi, della nostra paura di scomparire. Ma salvandoli, forse, possiamo ancora sperare di salvarci.
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Prossime date:
Novembre 2025 – Festival biennale del Mediterraneo, Montpellier
2 dicembre 2025 – Teatro Palamostre, Udine
4 – 7 dicembre 2025 – Teatro Metastasio, Prato