Mating
di Lina Maria Mannheimer
Nasce come esperimento sociologico – documentare l’amore ai tempi dei social – ma le premesse vengono abbandonate quasi subito, e quasi subito Mating diventa la summa di tutto quel che dovrebbe essere e come dovrebbe andare ogni storia d’amore, compresa una gestione sana e consapevole del dopo. I protagonisti, ripresi l’un l’altro dai rispettivi telefonini o dalle chat di Skype, seguiti lungo l’intero arco dell’adolescenza, sono più maturi e consapevoli di quanto quasi tutti gli adulti di ieri e oggi saranno o siano stati mai. Riesce difficilissimo credere all’inesistenza di un plot alla base, che la storia si sia evoluta spontaneamente senza alcuna macchinazione da grande fratello, che il solo – immenso – merito della regista sia stato azzeccare la coppia giusta, tutto il resto è venuto da sé; eppure è proprio così che pare sia andata. E così ci si ritrova partecipi di una storia che nasce su basi fragili e individuali e negli anni diventa la storia di ognuno, nel bene e nel male, negli alti e nei bassi e nella sofferenza procurata e nell’essere la prima persona a cui rivolgersi quando la vita si fa impegnativa; senza lo spazio per rendersene conto ci si trova a fare il tifo per i protagonisti e, alla fine dei titoli di coda, a conservare Mating nella memoria, nello stesso spazio riservato ai ricordi migliori. Migliore film sull’amore da svariati decenni a questa parte. Bisogna veramente tornare a Frank Capra per pensare a un equivalente; solo che qui è il 2019 e pare reale.
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Una Primavera
di Valentina Primavera
Qui invece l’esatto opposto: vivere male, arrancare prigionieri di una quotidianità aberrante i cui muri che la racchiudono li si è eretti in prima persona anno dopo anno, mattone su mattone, a un certo punto chiudersi dentro e gettare la chiave; lo scatto di volontà quando ci si trova a fare i conti con la qualità del vissuto, e il saldo finale è ben misero. La fuga all’estero dalla figlia (regista di questo straordinario pugno dritto nello stomaco), lentamente rientrare nei ranghi, volemose bbene e annamo avanti, ma con una consapevolezza acquisita attraverso cui passa tutta la differenza del mondo.
Lo sguardo è spietato, non arretra di fronte a niente, non concede sconti né chiede alibi: è andata così. La prima parte è spesso letteralmente insostenibile, roba da rendere Sussurri e Grida un cinepanettone, e andrei a dirlo in faccia a Ingmar Bergman se solo fosse ancora vivo. La percezione della seconda parte varia a seconda dei punti di vista; per quel che mi riguarda, un rospo che ancora non riesco a ingoiare, una lezione di cui credo di comprendere le dinamiche ma metterle in pratica è tutt’altra storia.
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Push
di Fredrik Gertten
Il motivo per cui viviamo nelle città sono gli incontri, dice a un certo punto uno degli intervistati in Push; la considerazione potrà sembrare scontata, ma se tutto continua a andare come sta andando nel giro di qualche anno diventerà fantascienza utopica, il ricordo di un ricordo. Le città si stanno svuotando dei loro abitanti, riadattate a pascoli per turisti, mentre nuovi palazzi disabitati continuano a venire costruiti e comprati e rivenduti. Qui viene spiegato perché sta succedendo; l’effetto, anche su chi abbia una seppur vaga consapevolezza del problema, è l’equivalente di svariate decine di docce ghiacciate, il velo di Maya nell’esatto momento in cui si squarcia. In un mondo con un senso, Push verrebbe proiettato nelle scuole, nelle piazze, ovunque, e innescherebbe reazioni, conseguenze, e la protesta di piazza Tienanmen al confronto diventerebbe un picnic tra scolaretti. Purtroppo la realtà in cui viviamo è ben diversa… per ora. Push è un ordigno in grado di ribaltare equilibri tristemente consolidati; sta a ognuno di noi contribuire a farlo esplodere.
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What’s My Name: Muhammad Alì
di Antoine Fuqua
Il titolo è fuorviante: religione e politica sono argomenti sfiorati soltanto di striscio e solamente per inquadrare il periodo storico in cui si è dipanata gran parte della carriera dell’uomo nato Cassius Marcellus Clay Jr., il più grande peso massimo di tutti i tempi. C’è un precedente, il cui solo ricordo fa tremare i polsi: Quando eravamo re, tra i migliori documentari di ogni tempo (premiato con l’Oscar nel 1997), a cui il tour de force pilotato da Antoine Fuqua riesce agilmente ad affiancarsi. Lo spettro d’azione è più ampio, così come la durata totale: quasi tre ore, in due episodi composti esclusivamente di materiali d’archivio riorganizzati con rigore filologico, in un magistrale lavoro di ricerca e recupero e un ancor più magistrale montaggio. Un film che trasuda amore per il gesto atletico, nuova pietra di paragone per i documentari sportivi, appassionante e serrato più del migliore thriller anche per chi i guantoni non vuole vederli manco col binocolo. Rispetto a Quando eravamo re, alla fine l’unico elemento che manca davvero è una colonna sonora che spacchi tanto quanto; ma battere i Fugees e la loro Rumble in the jungle con messe di ospiti da mandare a casa chiunque è impresa impossibile da eguagliare. In compenso, il finale commuoverebbe letteralmente chiunque. Titanico.
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Walking on water
di Andrey Paounov
Il film che documenta la realizzazione di The Floating Piers, serie di pontili galleggianti che univano le sponde del lago d’Iseo aperti al pubblico dal 18 giugno al 3 luglio 2016, non inizia: prosegue. Parte dalle fasi finali del progetto e si concentra sulle 48 ore precedenti e successive all’apertura al pubblico. È soprattutto, forse inconsapevolmente, un mastodontico monumento all’infinita stupidità umana, perfino più colossale rispetto all’opera stessa, oltre alla chiara dimostrazione che il genere umano non sopravviverà questo secolo.
Le immagini restituiscono un simpatico ometto anziano, folkloristico nel suo inesausto sbracciarsi, ma il vero deus ex machina dell’intera operazione è il nipote Vladimir, senza il quale i vaneggiamenti di Christo sarebbero poco meno dei deliri di uno squilibrato. Chissà come, la struttura ha tenuto fino alla fine: è questo il vero miracolo documentato da Walking on water. Ciò non toglie che la tragedia sia stata sfiorata, non per incurie o calcoli sbagliati, ma per l’ineluttabile evidenza dimostrata peraltro in tempi recentissimi dalle foto della coda sull’Everest: siamo in troppi, il pianeta è in sofferenza, stava molto meglio senza di noi.