Dal 1975 fino alla sua chiusura nel 2018, il Kinki è stato uno specchio dei tempi. Primo club gay negli anni settanta, palcoscenico della scena creativa degli anni ottanta, trampolino per i dj internazionali negli anni novanta e punto d’incontro per la generazione erasmus nel nuovo millennio, è stato un simbolo di Bologna, soprattutto nei primi anni, quando diventò il fulcro di una città trasgressiva e avanguardista.
Ed è proprio per raccontare quel momento che nasce l’idea del documentario Kinki – The secrets of the dancefloor prodotto da RCO productions e girato dal regista Lorenzo Miglioli.
«Di discoteche che hanno segnato la storia – ci racconta Micaela Zanni – ce ne sono tante, per questo abbiamo deciso di concentrarci su quel momento in cui il Kinki è arrivato prima di tutti diventando il primo club house in quella Bologna meravigliosa».
Ma siccome di materiale video ce n’è poco – «all’epoca era davvero raro andare in giro con una telecamera» – è stato organizzato per il 23 novembre al DumBO un party set andato sold out in poche ore, ovvero un’occasione per ritrovare frequentatori storici che possano condividere i propri materiali e le proprie testimonianze dirette che poi finiranno nel documentario che dovrebbe uscire nell’estate del 2025..
«Al Kinki – ricorda il regista Miglioli – ci sono andato varie volte e ho vissuto in maniera molto forte il fenomeno che oggi chiamiamo della club culture, cioè il fatto che gran parte della socialità e della formazione dell’ego avveniva attraverso lo scambio all’interno dei club. Il Kinki era un locale che ti chiedeva di andare oltre le categorie del tempo, era situato nel futuro. Peraltro un caso più unico che raro di club gestito da donne. Era una di quelle che lo scrittore americano Hakim Bey chiamava Zone Temporaneamente Autonome, un rifugio dall’aggressività della società nei confronti dell’individuo. Si dice che quelle era una generazione che non erano politiche, ma non è vero: non eravamo partitici, ma quello che facevamo era fortemente politico. Il documentario vuole quindi fare del Kinki una sorta di case history della club culture e ricostruire la memoria per le nuove generazioni.»