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Il primo caso di Coronavirus a Bologna è la cultura

L'ordinanza regionale ha paralizzato un settore già profondamente in crisi. Ecco cosa ne pensano gli operatori.

Scritto da Salvatore Papa il 26 febbraio 2020
Aggiornato il 17 marzo 2020

Domenica 23 febbraio abbiamo scoperto che il contagio del Coronavirus avviene principalmente nei luoghi di aggregazione culturale. L’ordinanza della Regione Emilia-Romagna oltre alla chiusura delle scuole e delle Università ha, infatti, stabilito la sospensione di tutte le manifestazioni, eventi e spettacoli che prevedano la presenza di pubblico bloccando teatri, cinema, musei e club musicali.
Di fronte a un’emergenza sanitaria da non sottovalutare, rimane comunque difficile comprendere la logica discriminatoria che consente a un centro commerciale di restare aperto e obbliga un teatro a rimanere chiuso. Pur mettendo da parte i supermercati per venire incontro alla logica del “bene primario” (che sarebbe comunque il cibo e non il supermercato stesso), c’è davvero qualcuno che crede che un cinema sia più affollato rispetto a Zara o H&M? È una visione forse troppo superficiale – sicuramente ipocrita – dello stato di salute della cultura in Italia, da sempre considerata un “bene secondario”.
Ragion per cui quando si parla di “danni economici”, in queste ore, ci riferisce soprattutto a quelli del turismo causati dalle cancellazioni delle prenotazioni. Ma se per gli hotel è “come il terremoto”, per gli operatori e i lavoratori della cultura – da sempre alle prese con una crisi strutturale – potrebbe diventare l’apocalisse.

«Il rischio – per Giovanni Gandolfi del Locomotiv – è quello di non essere in grado di garantire gli stipendi ai dipendenti e se lo stop dovesse prolungarsi la situazione diventerebbe drammatica visto che a marzo abbiamo un calendario fittissimo. Anche in caso di riapertura ci si aspetta comunque un calo di presenze e conseguenti ripercussioni economiche. Le prevendite degli eventi prossimi sono completamente ferme, l’incertezza sta paralizzando tutti. Con gli internazionali che già prima non vedevano l’Italia come destinazione prioritaria all’interno dei propri tour ora comincia a percepirsi la volontà di evitarla del tutto, essendo il paese europeo dove il virus è più presente. Sul condividere o meno i provvedimenti chiaramente non abbiamo titoli e competenze per pronunciarci su un tema così complesso, ma certamente qualche incongruenza su quello che può continuare a svolgersi e quello che deve fermarsi ci sembra evidente».

«Non riusciamo a capire – lamenta Daniele Rumori del Covo – come mai un concerto con 100 persone sia considerato a rischio contagio ma un ristorante pieno con gli stessi coperti no. Perché posso andare in una biblioteca, ma non in un museo. Perché una fabbrica con 200 operai è visto come un luogo sicuro, ma un club con lo stesso numero di persone no. La sensazione è che ancora una volta le decisioni vengono prese più per la paura di eventuali conseguenze politiche e mediatiche che per reale necessità. Si colpisce la cultura che in campagna elettorale è sempre una priorità, ma nella pratica è qualcosa a cui si può rinunciare senza troppi problemi. Nel caso del Covo questa chiusura è un massacro economico: questa settimana avevamo tre concerti importanti, di artisti internazionali, uno di questi sold out da settimane. Concerti che quasi sicuramente non riusciremo a recuperare e per i quali perderemo tutti gli anticipi pagati alle band ed alle agenzie. Anche in passato abbiamo vissuto situazioni del genere, tipo le chiusure causate dalla neve. In quel caso però non si può incolpare nessuno, stavolta però rimane il dubbio che tutto questo si poteva evitare».

Più la portata degli eventi cresce, maggiori sono le difficoltà a gestire la situazione.

«Purtroppo – ci racconta il direttore della Fondazione Emilia-Romagna Teatro Claudio Longhi – per noi la cosa è successa in pieno festival VIE. Ci si è abbattuta addosso una valanga di portata enorme. Mentre usciva l’ordinanza, per dire, c’era una compagnia in Cile che si stava imbarcando per venire in Europa e altre situazioni molto complesse da affrontare in poco tempo. In questo momento la nostra emergenza è innanzitutto spiegare all’estero cosa sta succedendo qui e risolvere alcune questioni giuridiche che si sono venute a creare con tutte le problematiche connesse ai diversi codici civili nazionali delle compagnie che avremmo dovuto ospitare. Aggiungendo anche il fatto che oltre al festival ci sono tutte le ripercussioni economiche delle nostre attività ordinarie con compagnie e produzioni bloccate e incassi che sfumano. Come Teatro Nazionale ho notizie dalla direzione di Platea (l’organismo di rappresentanza istituzionale presso gli organi di governo che riunisce 17 teatri stabili italiani, ndi) che è stata aperta un’interlocuzione con il Ministero per l’avvio di un tavolo di crisi a livello nazionale per il settore teatrale. Perché il problema non esiste solo in regioni come la nostra, ma stiamo creando problemi che a macchia d’olio si ripercuotono su tutto il sistema italiano. Ovviamente abbiamo intenzione di cercare delle soluzioni e fare presente la situazione di crisi, ma per avanzare delle richieste dobbiamo prima avere chiara la misura del danno subito e ce l’avremo tra un paio di settimane».

Più invece i luoghi e le associazioni si muovono con margini ridotti, più il rischio di chiudere baracca diventa concreto. È il caso, ad esempio, di un giovane spazio come Granata: «Se la cultura è di serie b – secondo Alice Sasori Marras – la musica è di serie z. Noi come tanti altri spazi culturali notturni siamo già martoriati da restrizioni amministrative e burocrazia e quest’ulteriore stop potrebbe essere un colpo di grazia. La city of music tanto osannata è anche fatta di precari come noi sempre alle prese con l’incertezza e non è più accettabile essere discriminati in questo modo. Quello che chiamano “intrattenimento” per noi è lavoro che si inserisce nella cosiddetta “economia della notte”, un settore al quale vorremmo fosse riconosciuta la stessa dignità degli altri».

Nel caso di un circolo più strutturato come il Cassero, invece, «lo stop impatta su più livelli – afferma il presidente Giuseppe Seminario – essendo non solo un locale notturno, ma anche un luogo che offre diversi servizi. La preoccupazione principale è quella degli strascichi futuri, perché temiamo che le persone non torneranno così facilmente a frequentare spazi di socialità come il nostro. Non abbiamo ancora fatto il conteggio delle perdite, ma è certo che ci saranno e che bisognerà ovviare in qualche modo a questa situazione. Un primo passo potrebbe essere la convocazione di un tavolo a livello regionale che riunisce le varie attività culturali mettendoci dentro anche Arci, Aics, il sindacato delle discoteche, le fondazioni teatrali per fare il punto della situazione e proporre soluzioni efficaci».

Nel frattempo in Regione sono state già incontrate dal presidente della Regione, Stefano Bonaccini, le associazioni di categoria, imprenditori, organizzazioni sindacali per analizzare la situazione e avanzare proposte. Un tavolo al quale non hanno preso parte né gli operatori culturali né gli assessori alla Cultura. E al momento nessuna convocazione è ancora arrivata.

«Gli spazi della cultura – ci dice Stefano Casi di Teatri di Vita – sono considerati come i primi sacrificabili (quindi i meno utili) in una scala di valori che vede al primo posto il commercio. È sempre la solita, assurda idea che la cultura sia un passatempo poco serio, e che non sia essa stessa parte del sistema economico del Paese: come se l’industria culturale e i suoi lavoratori non avessero la stessa cittadinanza del commercio e dei suoi lavoratori. Spero che di questa assurda settimana di blocco le istituzioni tengano conto al momento debito per evitare di martoriare ulteriormente il settore. Per quel che riguarda Teatri di Vita, casualmente questa settimana non avevamo appuntamenti, ma già nel weekend successivo è in programma una nostra produzione, e in ogni caso parliamo non di problemi individuali, ma dell’intero settore. La pressione ansiogena dei media e le ambiguità delle scelte politiche hanno portato la popolazione a una condizione di paura della socialità che spero non condizioni le scelte anche oltre il periodo di forzata chiusura delle attività culturali. In conclusione, si è trattato di una scelta poco comprensibile, concettualmente aberrante, economicamente disastrosa, socialmente negativa».

Dopo Milano, investita da un’ordinanza ancora più restrittiva, anche a Bologna è perciò partito un appello del mondo della cultura e dello spettacolo al Sindaco Virginio Merola e all’Assessore alla Cultura Matteo Lepore. Non per dire che bisogna fregarsene del Coronavirus, ma anzi per ribadire che sono proprio i soggetti più fragili quelli più a rischio. Per adesioni: ufficiostampa@arcibologna.it


AGGIORNAMENTO: è stato convocato un tavolo aperto al mondo della cultura bolognese per lunedì 2 marzo dalle ore 10.00 alle 12,00 presso l’Auditorium Biagi (entrata dall’ingresso principale di Piazza del Nettuno 3).
Saranno presenti l’Assessore alla Cultura Matteo Lepore, il Direttore del Dipartimento Cultura Osvaldo Panaro e lo staff del Dipartimento.