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L’insostenibile leggerezza dell’eventificio Bologna

Scritto da Salvatore Papa il 29 settembre 2021

Foto di Ansa/Alessandro Di Meo

Il carrozzone di Bologna Estate sta per togliere le tende. Da fine maggio a oggi si sono succeduti circa 3 mila eventi (solo quelli inseriti sul sito del Comune), una cifra abbastanza impressionante, soprattutto in un anno come questo in cui il mondo della cultura dal vivo è stato limitato da norme anti-Covid tra le più stringenti.

Da diverso tempo ormai l’offerta culturale estiva a Bologna è sinonimo di gratuità. Chi prova a mettere un biglietto di ingresso conosce i rischi, spesso troppo alti per tentare l’azzardo. È una doppia spirale: da un lato è paradossalmente più remunerativo lasciare libero l’ingresso e sperare negli introiti del bar – appiattendo però di conseguenza la proposta artistica -, dall’altra diventa sempre più difficile abituare il pubblico al prezzo di un biglietto.
Una tendenza che non dispiace al Comune, il quale attraverso il proprio bando annuale elargisce una somma di denaro ai (tanti) vincitori spesso sufficiente però a coprire solo una piccola parte delle spese, a fronte comunque di un investimento pubblico complessivo tra i più alti d’Italia (solo nel 2021 oltre 1 milione di euro).

Avere una città ricca di eventi che si svolgono magari in contemporanea è un ottimo biglietto da visita agli occhi di chi tenta di attrarre turisti e investimenti.
Era quello che emergeva anche da una ricerca di Nomisma del 2017 ripresa da un articolo del Sole 24 Ore, secondo la quale il 74% dei turisti arrivava a Bologna per una motivazione culturale. Una ricerca che, come molte altre, puntava a dimostrare che c’è sempre un ritorno per chi investe in cultura, in quanto volano per lo sviluppo economico e sociale del territorio (e del consenso). E non è un caso che sia nei ministeri che negli assessorati le deleghe al turismo e alla cultura vengano ancora accorpate. O che a Bologna, in uno strano cortocircuito, il tesoretto per la cultura derivasse dalla tassa di soggiorno.

Dal sito www.bolognaestate.it

Ci sono però alcune controindicazioni.

Quando la cultura viene utilizzata, infatti, come motore del turismo e della rigenerazione urbana chi ne misura l’impatto (e di conseguenza sceglie cosa sostenere) lo fa in termini numerici (quanto – e quale – pubblico, quanta spesa, quale indotto), tralasciando i più importanti aspetti comunitari e qualitativi, che richiedono una visione di lungo periodo difficilmente quantificabile.
È un metro di valutazione che vale per quasi tutti i bandi a tutti i livelli istituzionali e che ha dimostrato tutte le sue contraddizioni proprio durante il lockdown quando in tanti si sono ritrovati nella paradossale situazione di dover rendicontare spese e attività chiusi in casa per non perdere i finanziamenti già ottenuti, uno dei motivi per cui siamo stati sobissati dagli streaming.

Spendo ergo sum.

Lo stesso vale per il pubblico che se non spende allora non esiste, come dimostrato dalla totale assenza di rispetto di alcune misere iniziative online. Così dopo aver assistito alla morte del pubblico nei giorni del lockdown, ci siamo ritrovati in estate davanti alla sua reincarnazione nel “consumatore” e in una marea di eventi funzionali solo a far girare i bar.
E mentre veniva prorogato il divieto di vendita di alcolici dopo le 18 per i negozi di vicinato (fino al 31 dicembre!) aumentava la separazione tra due tipi di città: quella della movida buona che fa “cultura”, e quella della mala-movida che occupa le piazze e che alimenta il contagio e il degrado. Alla prima veniva concesso di privatizzare lo spazio pubblico, alla seconda veniva vietato quasi tutto – seppur senza successo – con recinzioni e forze dell’ordine del tutto inutili. Fino all’ennesimo tentativo di utilizzare la cultura per ragioni securitarie sfociato in un’imbarazzante ritirata del Teatro Comunale dalla programmazione di Piazza Verdi.

Piazza Verdi – Foto del Resto del Carlino

Chiaramente non è un discorso che vale per tutto, e per tanti operatori culturali fermi da due anni non c’erano molte alternative, ma escluse le Fondazioni che possono contare su un budget (e di conseguenza su una qualità) di un certo livello e pochi irriducibili, per il resto è stata davvero una bella sbornia.

Si dirà che bisogna guardare invece al lavoro fatto nelle periferie, dove le attività – estive – negli ultimi anni sono aumentate sempre più. Può essere: peccato però che finita l’estate, si smonta baracca delegando la rigenerazione al solito cemento.

Certo, Bologna non è mai stata la città dei grandi eventi, ma questo fino a qualche tempo fa non era un problema, grazie a un proprio tratto caratteristico: la sua capacità di alimentare determinate sottoculture e produrre nuovi immaginari. Capacità venuta meno un po’ per una crisi immaginativa generale, ma anche per l’incapacità politica di tutelare certe importanti esperienze di autogestione simbolo di quella vecchia città “underground” nota in tutt’Europa. Senza nostalgia, possiamo dire che oggi Bologna è una città alla ricerca di una nuova anima.

E i lavoratori dello spettacolo come se la passano in tutto questo? Possiamo fare delle ipotesi guardando ai numeri del passato, tratti da una delle rare e comunque generiche ricerche sul campo.
In uno studio condotto nel 2020 dalla Regione Emilia-Romagna relativo al 2019 (quindi pre-pandemia), i lavoratori dello spettacolo in tutta la regione ammontavano a 11.840 (lo 0,2% della popolazione totale) di cui solo 2731 quelli a tempo indeterminato (lo 0,06%). E com’è possibile che in una delle regioni più culturalmente attive d’Italia i numeri siano così bassi?
È chiaro che, oltre alle partite iva (3.781), nella stragrande maggioranza questi lavoratori sono o pagati in nero o a prestazione occasionale. Parliamo quindi di un settore in preda a una precarietà sistemica. Lo stesso discorso vale chiaramente anche per la città di Bologna che nel 2017, sempre secondo lo studio di Nomisma citato prima, occupava nei diversi settori culturali il 7,6% della popolazione. Quanta parte di quegli occupati erano e sono precari? Possiamo dirlo: moltissimi, troppi.

C’è voluta una pandemia e la crisi nera perché qualcuno se ne accorgesse e solo a marzo 2021 è stato firmato con i sindacati un protocollo in cui il Comune si impegna a inserire nei propri bandi clausole specifiche per contrastare il lavoro irregolare e favorire la stabilità occupazionale. Vedremo cosa succederà nella pratica. Ma ciò significa che finora sono stati concessioni milioni di euro pubblici per finanziare attività che dovevano sì dimostrare qualità, sostenibilità ambientale e attrattività turistica, ma nulla rispetto alle condizioni dei propri lavoratori.

Migliaia di eventi equivalgono, perciò, a centinaia di lavoratori precari all’interno un contesto, peraltro, culturalmente sempre più appiattito.

La Bologna che si candida ad essere la città più inclusiva e progressista d’Europa non ha bisogno di un eventificio, ma di un sistema culturale equo e sostenibile scorporato dalle opportunistiche logiche dell’attrazione e del profitto, un sistema che possa generare valore sociale per chi abita la città.

E se iniziassimo tenendo netta la distinzione (e le deleghe) tra cultura, turismo e commercio?