La Mafia non è più quella di una volta
Franco Maresco porta la mafia e Palermo a Venezia nel suo stile unico e inimitabile. Dopo Belluscone. Una storia sicilianavisto a Venezia nel 2014 il grande Franco Maresco di Cinico TV (senza il suo ex sodale Ciprì) torna – in concorso – con una pellicola sorprendente che strappa lunghi applausi e tantissime risate anche se il tema è scottante: a 25 anni dal brutale assassinio dei giudici Falcone e Borsellino cosa resta a Palermo della coscienza antimafia? Il titolo, che è semplicemente perfetto, lascia intravedere una risposta agghiacciante: La Mafia non è più quella di una volta.
Per questa ‘indagine’ surreale (a cominciare dal dichiarato scetticismo del regista sull’anima antimafia di Palermo, è sua la voce fuoricampo che intervista gente comune e riprende commemorazioni pubbliche), due sono i protagonisti della pellicola – che si dibatte tra il documentario e la follia onirica della Palermo ‘felicissima’ anche quando è sull’orlo del baratro, come Maresco ci ha da sempre abituati.
La voce di Letizia Battaglia, grande fotografa di reportage e battagliera attivista politica al fianco di Leoluca Orlando anche all’età di 83 anni, si contrappone a quella di Ciccio Mira, altro palermitano, organizzatore di concerti di neo-melodici già arrestato per mafia e animatore di una rete privata molto seguita nelle carceri (la tv è stata accusata di mandare messaggi in codice, i cosiddetti ‘pizzini’, ai mafiosi reclusi e tutt’ora non si sa chi la finanzi). Completano il cast stravagante, altri due veri personaggi: il produttore di Mira e un giovane menomato, entrambi malati di mente per due diversi disturbi.
Oltre alle commemorazioni antimafia, il film segue l’organizzazione di un evento surreale che accade nelle stesse date: Ciccio ‘decide’ di fare un concerto di piazza allo Zen di Palermo in memoria dell’anniversario delle morti del 2018 e tutto il film ruota sul fatto che Maresco, seguendolo da vicino per i preparativi (e poi durante la disgraziata serata della performance) tenti di forzare l’impresario (già personaggio celebre nei suoi passati lungometraggi) a schierarsi ‘contro la mafia’ con una semplice dichiarazione in favor di camera ‘no alla mafia’.
Oltre all’uso mirabile del bianco/nero quando entra in scena Ciccio (e spesso il b/n è usato solo per Ciccio mentre le altre parti della scena sono a colori), ad un tratto la pellicola ha un brano di animazione sorprendente e in ogni momento si riferisce a fatti veri e apparentemente girati dove accadono, sebbene si abbia più volte il sospetto che la principale storia (l’organizzazione del concerto allo Zen) sia un po’ creata per l’occasione narrativa dallo stesso Maresco.
Poco coerente il finale, dove poco prima della fine dei titoli di coda, viene aggiunto un altro capitolo (ipotizziamo per pressioni di Ciccio su Maresco): Ciccio stesso che si rivolge a Mattarella (presidente della Repubblica, anch’egli palermitano: suo fratello è stato assassinato dalla mafia) per alludere ad una richiesta di grazia a un suo nipote sottoposto al regime del 41bis in un carcere de L’Aquila. Prodotto tra gli altri da Formenton de il Saggiatore, il film ha ricevuto un notevole aiuto anche da Pietro Marcello ed Avventurosa. Avremmo voluto fare un sacco di domande a Maresco ma ne’ lui ne’ Letizia Battaglia si sono presentati alla conferenza stampa del film.
Voto: 8.5
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Nevia
È alla sua opera prima – in concorso ad Orizzonti – ma Nunzia De Stefano quarantenne napoletana di cinema ne ha masticato parecchio sin da quando ha incontrato Matteo Garrone sul set di Gomorra e dopo non si sono più lasciati per tutti i seguenti film (sono anche, o forse erano, una coppia e hanno un bellissimo figlio).
Coincide con la sua biografia da giovane, il film è prodotto da Garrone e Rai Cinema: la storia di un’adolescente che combatte per proteggersi (e proteggere la sua giovanissima sorella) dagli appetiti di adulti sbagliati e dalla durissima vita del loro quartiere. Ponticelli, ad est di Napoli, è un luogo dove tra le altre storture, esiste (ancora oggi) il ‘post terremoto’. Tante famiglie come quella di Nunzia hanno vissuto anche per 10 anni in case prefabbricate senza mai avere l’assegnazione di una casa popolare.
In quelle case precarie si svolge Nevia dove una 17nne senza madre (il padre è in carcere) vive con la nonna ex prostituta, una zia affettuosa e una piccola sorella molto impertinente. Farà di tutto per garantire alla sorella e a sé stessa una vita onesta e si arrabatta con mille lavoretti (non va a scuola) fino a che incontra un circo e si unisce a loro scoprendo che adora lavorare con gli animali e stringendo una particolare amicizia con un circense adulto che rappresenterà un’altra delle sue infinite delusioni. Non c’è redenzione per Nevia/Nunzia, non esiste speranza e l’orizzonte resta quello tetro della delinquenza e della marginalità (‘come si fa a salvarsi da qui’ ripete come un mantra). Eppure….il finale aperto semina una perla di positività. Il film funziona magistralmente ed è imperdibile. Dalle riprese straordinarie, vede un cast straordinario di attori professionisti e non in cui figurano la cantante Pietra Montecorvino (nel ruolo della nonna di Nevia), una straordinaria Virginia Apicella a impersonare la giovane Nevia. La fotografia – mai ridondante, anzi molto garroniana – è firmata da Guido Michelotti e la sceneggiatura originale è stata scritta a quattro mani da Nunzia De Stefano e Chiara Atalanta Ridolfi.
Gli applausi del pubblico sono stati incredibili, oltre 8 minuti: il cast intero era presente alla proiezione e la regista si è rifiutata di fare il question time perché la commozione è stata troppa (non solo lei, anche Garrone ha pianto molto).
Voto: 9
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The Painted Bird
Dura 169’, totalmente in bianco e nero. The Painted Bird è un film degli orrori più ferali mai visti tutti insieme che racconta la lunghissima fine della II guerra mondiale in un non precisato brano di campagna cecoslovacco quando bande di soldati tedeschi e russi imperversavano in poveri villaggi, i treni delle deportazioni degli ebrei ancora sfrecciavano nei campi di grano con il loro mesto carico che spesso cercava di liberarsi e veniva sparato e bruciato sull’istante, creando isole fumose nelle messi. Il sole, imperturbabile sopra tutta questa miseria e violenza, si staglia inevitabilmente uguale a se’ stesso, definendo un grigio orizzonte.
Il film racconta la storia di un bambino amato, di buona famiglia e molto piccolo che viene nascosto dai genitori da una madre surrogata in aperta campagna, di modo che loro cercassero di scampare lo sterminio e poi di ricongiungersi a lui.
Il bambino assiste alla improvvisa morte della sua tutrice, la casa va a fuoco e da allora cammina ramingo senza sosta, passa da un carnefice all’altro tra cui, in ordine sparso, una fattucchiera che lo usa come scaccia-spiriti, un mugnaio pazzo, un vagabondo che vende uccelli canterini, un pedofilo che lui riesce finalmente ad uccidere, infine una ragazza che del pari lo violenta e due eserciti – quello tedesco e quello russo – dove in mezzo ad angherie e botte indicibili trova due anime pie, le uniche che insieme a un prete cercano di trattarlo con umanità. Viene voglia di leggere il libro omonimo da cui è tratto, autore Jerzy Kosiński per sapere se il regista Vaclav Marhoul ci ha risparmiati qualcosa oppure no, incluso il numero di morti a cui assiste il bambino. Che alla fine viene trovato, assai rocambolescamente, da suo padre e ovviamente siccome mai nessuno lo ha più chiamato per nome egli sembra averlo dimenticato – di sicuro ha perso la parola da tutto l’orrore subito in due anni di soprusi sempre peggiori. Si capisce che scorre il tempo dalle stagioni che lo vedono spesso soccombere al gelo.
Nonostante tutto, il bambino (il cui nome rimarrà misterioso fino all’ultima scena) ha perso la favella ma non l’umanità e sebbene il film non parli del dopo, fa presagire che una diversa sorte gli sarà data in dote.
Il pubblico (nella mia proiezione era solo di addetti ai lavori) è rimasto letteralmente muto e fermo alla fine: nessun applauso, nessuna reazione. Forse troppa verità? Forse troppa chiarezza, meglio crudezza, nel raccontare da dove è venuto questo orrore che ora si chiama Europa Unita e solo ora è contro ogni futura guerra (si spera)?
Notazione a margine: i produttori di questo film sono una coppia (che abbiamo già nominato a proposito di Exstase, dato che ne hanno pagato il restauro), si tratta di Milada Kučerová ed Eduard Kučera (noto imprenditore ceco e proprietario di Avast Software). E il regista ha dichiarato che a spingerlo a fare questo film (monstre, aggiungiamo!) era proprio il trattamento del ‘bambino’ da parte dello scrittore che non gli fa perdere mai l’umanità. L’attore giovanissimo che impersona il protagonista è un absolute beginner, non ha mai recitato in vita sua prima di questa ciclopica prova.
Sarebbe bizzarro vedere questo film sul podio (e dal voto che gli diamo vi consigliamo di vederlo se non siete ne’ deboli di cuore ne’ di stomaco) ma non sarebbe affatto bizzarro che Joska/Petr Kotlar vincesse la coppa Volpi.
Voto: 8
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Madre
8 minuti di applauso: Madre di Rodrigo Sorogoyen ipoteca qualche riconoscimento ed in ogni caso ha avuto già quello del pubblico in sala. Produzione franco-spagnola, è nato da un cortometraggio (come del resto anche Pelican Blood, ma non con la stessa fortuna pur parlando di maternità) che nel 2011 ha vinto oltre 40 riconoscimenti nei migliori festival internazionali. Definitivamente è la continuazione della stessa storia da dove si è interrotta, tuttavia dieci anni dopo.
Una giovane madre spagnola separata riceve, nel bel mezzo di un pomeriggio qualunque, la telefonata da suo figlio di sei anni, che si trova in vacanza in camper con il padre. Con il cellulare quasi scarico, prima di perdere la comunicazione, il bambino, spaventato, fa in tempo a dirle che il padre si è allontanato da molto tempo, che lui è solo e non sa dove si trovi (vagamente, una spiaggia in Francia con a destra delle rocce e a sinistra campo libero) e che un signore, che aveva appena ‘fatto pipi’ si stava avvicinando a lui. Nessun altro nei dintorni, del padre nessuna traccia.
Il figlio alla fine sparirà e il film non racconta della parte giudiziaria di questa vicenda ma della madre che nel frattempo su quella spiaggia è andata a vivere annegata in una patina di dolore, dirigendo un ristorante. I suoi giorni sono tutti uguali, come possiamo immaginare ha un pessimo rapporto con i cellulari e con ogni forma di comunicazione. La sua vita si anima d’un tratto quando in mezzo ad un gruppo di ragazzini che fanno scuola di surf vicino al suo ristorante ne fissa uno, che ha l’età di suoi figlio adesso (16 anni, contro i 39 di lei) e che sembra gli rassomigli. Inizierà una storia di affezione ed attrazione che la metterà in difficoltà e che le lacererà di nuovo la vita, scombussolando non di poco quella del giovane adolescente, assai maturo per la sua età e seriamente invaghito di lei.
Niente è come sembra in questo film, niente sarà come prima dopo. Sorogoyen, che firma anche la sceneggiatura, adotta scelte non convenzionali, a cominciare dai titoli di testa e di coda: la pellicola si snoda con un ritmo insolito mischiando molti generi cinematografici e le inquadrature – in cui del pari si mischiano scene super pulite ad altre molto rough – hanno dei campi larghissimi che tendono ad aumentare le sensazioni provocate dai dialoghi. L’imprevedibilità e la cifra struggente si combinano anche nel finale, che ancora una volta lascia un’interpretazione assai soggettiva allo spettatore.
Se vi appassionerà il suo stile, Il Regno, il suo ultimo film prima di questo (un tesissimo thriller), esce il 5 settembre 2019 in Italia.
Voto 8
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Verdict
Raymund Ribay Gutierrez, regista filippino venticinquenne già due volte nominato come migliore corto al Festival di Cannes, porta il suo primo film di finzione – non di meno basato su un’incessante ricerca preparatoria che lo ha visto intervistare dozzine di coppie ed addetti ai lavori – a Orizzonti, strappando un’incredibile sequenza di applausi.
Verdict racconta una di mille storie di violenza domestica (diversi i film a concentrarsi su questo tema molto attuale), uno dei crimini più perpetrati nelle Filippine. Il film si svolge tutto nei sobborghi poveri di Manila.Prevalentemente girato in interni – a volte claustrofobici, a volte molto funzionali a tradurre il determinismo ambientale e certa cultura del paese – la storia narra di una giovane moglie, Joy, la quale smette di subire le botte del giovane marito quando una volta lui arriva a picchiare seriamente anche la bambina spaccandole la fronte.
Decide di denunciarlo e di andare in giudizio. Per un paese in via di sviluppo, come afferma anche il regista nel question time con il pubblico, la prima parte della macchina funziona bene (denuncia ed arresto del colpevole) ma la seconda (intraprendere e vincere la causa legale) risente di tutta la fragilità di un sistema che continua ad essere molto in favore della figura maschile, anche di fronte ad ogni evidenza. Rivelatrice e ben costruita la scena in cui i poliziotti fanno irruzione a casa della coppia per cercare il marito e trovano lo shaboo sparpagliato ovunque (è la potente droga simile al meth, diffusissima in Asia e ora anche in Europa), e dicono ‘lascia stare, non siamo stati chiamati per droga ma per violenza domestica!.
Non solo le ottime prove attoriali (il film parla di una violenza inaudita ma anche di un’incredibile dedizione genitoriale da entrambi i lati) ma soprattutto un’implacabile scrittura-verità fanno di questo lavoro uno dei papabili per un premio.
Voto: 8
Ad Orizzonti il cinema asiatico si fa largo con pellicole (e storie) di qualità. E, ora che la sezione più interessante della Mostra del Cinema si svela, è possibile viaggiare restando fermi attraverso tutte le cinematografie del mondo. Il pubblico si conferma sempre assai numeroso ai vari question time con gli autori.
Pema Tseden – filmmaker e romanziere tibetano – è accolto anche quest’anno benissimo a Venezia dove presenta in anteprima mondiale il suo Balloon una storia che ha scritto a partire dall’ispirazione casuale di un pallone che volava nel cielo, abbandonato dalla mano di un bambino.
Dargye e Drolkar – una coppia di coniugi tibetani affiatati e giovani, lui allevatore di pecore lei casalinga – hanno tre figli e vivono con il nonno in una zona rurale (un lago vicino alla città natale del regista).
I preservativi, recuperati gratuitamente al locale ospedale dove tra mille imbarazzi Drolkar spiega alla dottoressa che vorrebbe legarsi le tube – vengono sempre sottratti dai più piccoli di casa che li fanno diventare dei palloncini con sommo imbarazzo degli adulti: il controllo delle nascite (la storia, come ci ha detto il regista, è stata scritta datandola a fine anni 90 per dare voce alle preoccupazioni ed ai temi cari alle donne del suo paese) è stato molto severo in Cina (e Tibet) con multe salate per chi continuava a procreare. La mentalità arretrata del fare molti figli a discapito delle possibilità di istruzione e di benessere da dare a ciascuno si scontra con una serie di accadimenti che modificano il corso degli eventi e coinvolgono il piano più religioso della comunità e il significato profondo della reincarnazione.
La fotografia di questa storia è straordinaria (tutta in digitale, la firma il giovanissimo Lu Songye): riesce a tradurre sempre bene il doppio registro del film, una storia molto vera e concreta ed un livello spirituale difficilmente traducibile in immagini.
L’attore principale che interpreta Dargye è il noto performer e poeta Jinpa, il cui omonimo film valse l’anno scorso a Tseden il premio a Orizzonti per la migliore sceneggiatura (il lavoro era prodotto da Wong Kar-way).
Voto 7,5
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Marriage Story, scritto e diretto (oltre che prodotto) da Noah Baumbach (uno dei film più attesi targati Netflix, sulla piattaforma dal 6 dicembre) ipoteca qualche premio di sicuro in area recitativa. E si conferma essere come il più amato di questi primi due giorni di proiezione.
In concorso a Venezia76, è la storia di una coppia bobo attiva lui nella regia teatrale d’avanguardia e lei nella recitazione hollywoodiana e tv, che si incontrano ad Est e dividono un figlio fortemente voluto ma sono divisi anche dalle loro città d’elezione (lui vuole sempre restare a NYC e lei sempre tornare a LA).
Una straordinaria Scarlett Johansson recita senza riserve il ruolo di una donna (e di una madre) tradita dalle ambizioni assai auto-referenziali del marito (e da un suo tradimento di bassa leva con la scenografa della loro compagnia teatrale) e ha il coraggio, piano piano, di trovare di nuovo la sua strada. Non sa come, non sa perché ma questa strada condurrà al divorzio che le fa di nuovo guadagnare fiducia in se’ stessa inevitabilmente precipitando la vita del marito in un inferno tutto nuovo, in cui si divide tra la East e la West Coast per non perdere grip sul figlio e, ça va sans dire, su di lei. Nonostante il film racconti un divorzio, racconta anche l’inevitabilità del matrimonio e dell’unione al di là della legge, soprattutto in presenza di un figlio. E il finale vi sorprenderà!
È un film complesso nella sua schiettezza, in cui lei si supera nella recitazione perché (come ha raccontato in conferenza stampa) quando le è stato proposto di lavorare con il regista ed autore di Brooklyn (la storia ha un sapore estremamente autobiografico considerando i luoghi dove lui gira come Park Slope) lei stava affrontando il suo secondo divorzio.
È un film che esamina senza alcuna reticenza i ruoli di una coppia creativa che si separa ridiscutendo le proprie vite senza un punto di ritorno eppure, senza sapere come andrà a finire, in fondo ritiene e coltiva un profondo rispetto ed una voglia di non lasciare spegnere la fiamma della comunicazione, se proprio l’amore è inesorabilmente tramontato.
Anche la recitazione del padre e marito (Adam Diver, volto noto del cinema USA) è di una grande caratura, senza lesinare un fine cesello sulla genesi della commozione in un uomo.
Ad alto tasso di kleenex, il film è al contempo una vivace commedia (soprattutto grazie al ruolo di Laura Dern) che strappa non poche risate. Fa anche il verso a certe nicchie culturali e a certe considerazioni sulle due grandi antagoniste dell’America dell’oggi (ora che San Francisco assiste a una fuga inesorabile per il costo della vita e l’egemonia hi-tech): New York e Los Angeles. Se la prima si vive a piedi, la seconda ‘ha spazio’, un enigmatico commento che scaturisce sempre quando è la freddura e la risata a stemperare un vortice di sentimenti ed autoanalisi davvero esiziali ma implacabili. Il trattamento cromatico delle due città, paradossalmente, è stato lo stesso pur essendo agli antipodi per luce ed architetture e il regista lo ha fatto scientemente con il suo scenografo!
Colonna sonora originale e montaggio in cui abbondano lunghissimi primi piani alternati a interni mozzafiato, il film racconta anche la versatilità di Baumbach come autore: passa dai documentari a film come Madagascar 3, Mistress America, Frances Ha. Per questo film, trattando un argomento così personale come il divorzio (che ha vissuto da figlio e anche da marito), si è documentato a lungo con interviste ad addetti ai lavori e coppie.
Voto: 8
Proiezioni per il pubblico: 29 agosto alle 19 in Sala Grande e alle 20 in Palabiennale, il 30 agosto alle 8.30 in Palabiennale, Non perdetelo.
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The Perfect Candidate
Haifaa Al Mansour è la prima regista donna ad affermarsi in Arabia Saudita (studi al Cairo e a Sydney): porta a Venezia76 The Perfect Candidate una sorta di bitter comedy in cui offre uno spaccato assai realistico del regno saudita e della condizione delle donne raccontando di una famiglia unita, molto progressista composta da padre e tre figlie tutte giovani e senza marito – dove aleggia lo spirito della madre morta da poco (una cantante come il padre). La protagonista del film è la figlia maggiore della famiglia, che di mestiere fa la dottoressa in una clinica: si candida alle elezioni municipali come ultima spiaggia per affermare il suo diritto ad esistere e tutte le istanze sempre negate al lavoro ma anche per continuare a portare avanti le istanze femminili.
La regista vuole puntualizzare anche come non solo il cambio di passo nei confronti delle donne ma anche il ritorno ad un più sereno rapporto con le arti beneficerebbe il paese e lo salirebbe dall’oscurantismo in cui è precipitato.
Mansour ha vissuto il cambiamento notevole (per il meglio) della situazione nel regno sulla sua pelle: quando ha fatto il suo primo film era anche duro trovare dei cinema e l’industria nel 2011 praticamente non esisteva. Ma ancora molto, molto lungo è il cammino per la modernizzazione!
Voto: 6
Proiezioni per il pubblico: giovedì 29 ore 16.45 (Sala Grande), 30 agosto ore 16.15 (Palabiennale)
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Pelican Blood (Pelikanblut)
Pelican Blood (Pelikanblut, 121’) è un film tedesco che gioca a mischiare horror, dramma e psicologia. Non sappiamo quanto ci riesca bene (a me è piaciuto fino a un certo punto e il primo pubblico che l’ha visto insieme a noi giornalisti era piuttosto freddino). Tuttavia la storia è molto ben narrata e le scene convincenti. Wiebke (Katrin Hoss) ha 45 anni e di mestiere alleva e doma cavalli, ha un suo maneggio e tutto pare perfetto. Vive con la sua figlia adottiva (Nikolina, 9 anni) e sembra avere del tenero con uno dei poliziotti che vengono ad allenarsi con i suoi cavalli, anche lui padre single. La diversità è tutta in Wiebke, che non ha un compagno e adotta bambini.
Il suo volto coriaceo disegnato dai segni del tempo e delle stagioni si illumina quando viene informata che un’adozione internazionale aveva finalmente portato a termine il suo processo e presto sarebbe arrivata Raya, la sua nuova figlia e la sorella (tanto attesa) per Nika.
L’incubo è alle porte ma nessuno di loro se lo aspetta: Raya si rivela affetta da un pericolo disturbo collegato ad una reazione più che normale a protezione delle atroci sofferenze subite. La madre non si arrende, si affida agli psicologi e dopo un fai da te assai pericoloso in fatto di cure, come ultima spiaggia arriva alla magia nera. Quando tutto sembra perduto….
Al di là di cosa vi farà provare il finale, esso riscatta una visione della genitorialità e delle scelte obbligate che spesso fanno tutt’uno con le costrizioni morali.
L’anno scorso l’apertura di Orizzonti era toccata a ‘Sulla mia pelle’ – il film Netflix sulla storia degli ultimi sei giorni di vita di Stefano Cucchi (se non l’avete ancora visto ve lo consiglio!) – ed era tutta un’altra musica. Katrin Gebbe, la regista ed autrice di questo film, lo porterà anche a Toronto a settembre.
Voto: 5
Prossime proiezioni per il pubblico: 28 agosto ore 19 (Palabiennale); 29 agosto ore 8.30 (Palabiennale)
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Exstase
Nella straordinaria mostra di foto d’archivio dell’ASAC ospitata l’anno scorso (in occasione della 75ma Mostra del Cinema) al Des Bains riaperto per la prima volta, uno dei fotogrammi più belli e spiazzanti era proprio dedicato a un frame di Extase. Che quest’anno celebra la 76ma Mostra del Cinema con la consueta serata di pre-apertura (dedicata ai veneziani) e due proiezioni per il pubblico. No glamour ma tanto (e pregevole) lavoro di restauro per recuperare una pellicola del 1934, passata alla seconda edizione della Mostra al Lido (allora all’Excelsior ed ancora biennale) e salutata da un enorme successo di critica e di pubblico.
‘Pare Mussolini si sia fatto spedire una copia per una visione privata, ma è stato proprio l’enorme successo – e una diffusione enorme: copie in ceco, tedesco e francese – a ‘condannare’ questo film a molte versioni diverse anche per questioni di censura e quindi poi ad una dispersione dell’originale.’ ha annunciato Alberto Barbera (direttore della Mostra), durante la presentazione che proiettava proprio quella copia ‘ritrovata’ a partire da un lavoro complicato di raffronto e ricostruzione e da una digitalizzazione all’avanguardia che restituisce la grana ed i segni del tempo.
Restaurato a partire da tre copie conservate in altrettante cineteche europee e un positivo da negativo conservato all’Istituto per il restauro Ceco grazie ai fondi privati di una coppia di coniugi appassionati, il famoso film di Gustav Machatý ha riempito la Sala Darsena e ha stupito per la modernità del suo linguaggio.
A cavallo tra il muto e i primi film con dialoghi, Exstase sarebbe oggi definito un arthouse movie per via dello spiazzante uso della fotografia di paesaggio e per l’inconsueta modalità di scavare dentro le emozioni delle persone.
Una giovane donna di buona famiglia si sposa con un uomo algido, egoista e più vecchio di lei che la tradisce e non la soddisfa neanche sessualmente (il film inizia con la prim notte di nozze non consumata).
Lei – viva, vibrante e soprattutto colta – resiste quanto può ma infine ritorna alla casa paterna, chiede il divorzio e si apre al piacere con un altro uomo – orgasmo compreso, ritratto in una situazione bucolica e straordinariamente in sincrono con la lussureggiante natura circostante.
Una tragica fatalità che culmina con il suicidio dell’ex marito la porterà a scappare dall’amato ma il finale sospeso e sibillino presagisce addirittura una maternità da single.
Altre proiezioni per il pubblico: 29 agosto ore 16.45 (Sala Volpi); 6 settembre ore 14.30 Sala Casinò.