Sarebbe stato molto più semplice rimandare, ma non sarebbe stata una scelta da Motus. A rendere memorabile il tutto ci si è messa la pandemia e anche per questo qualcosa, seppur una sola cosa, bisognava farla. Eppure ne è uscito un cinquantennale che nella sua dimensione in tre atti – da luglio 2020 a luglio 2021 – e progettualità di lungo corso rappresenta sicuramente la migliore celebrazione della storia di un festival che sarebbe stato forse riduttivo festeggiare in soli dieci giorni e che, proprio nel suo sguardo oltre la contingenza, trova tutto il suo significato.
Ecco cosa ci ha raccontato Enrico.
Immagino che nei mesi scorsi abbiate vissuto un po’ come sulle montagne russe. C’è mai stato un momento in cui avete pensato di rinunciare?
Sinceramente ti dico di no. All’inizio era ovviamente impossibile immaginare come avremmo potuto affrontare la situazione, per i teatri si parlava addirittura di una riapertura a dicembre, ma dopo esserci confrontati con il nostro staff abbiamo deciso di andare avanti. Per noi era importante mettere una bandierina, fosse stato anche un solo giorno o un solo evento. L’idea era di farlo in agosto, ma alla fine abbiamo scelto di rimanere sulle date che avevamo già fissato. Chiaramente senza gli ospiti stranieri il programma si è ridotto e, quindi, da 10 giorni sono diventati 5. Ma siamo molto contenti per quello che siamo riusciti a fare. Sarà un festival addirittura più denso di quello che speravamo.
Cosa vi ha insegnato il lockdown?
Se da una parte la scelta di proseguire con il festival ci ha catapultati in un periodo iper attivo e iper lavorativo con tutte le difficoltà e le fatiche della distanza, dall’altra è stato ovviamente anche un grande periodo di riflessione. Come artisti erano più o meno dodici anni che non passavamo un periodo così lungo a casa, essendo abituati a prendere aerei e a viaggiare nel mondo con molta facilità. Ma questo ha appunto aperto un pensiero sull’eco-sostenibilità del sistema stesso, ci ha permesso di realizzare che non è necessario spostarsi così compulsivamente, inseguire il sistema concitato del teatro, dove devi per forza vedere ogni cosa ed esserci sempre. Ora è chiaro che potremmo prendere tutto con più calma e che è possibile immaginare forme di partecipazione per le quali non è indispensabile la presenza fisica.
Da grande appassionato di science-fiction, è stato comunque come vivere in un libro. Anche se credo che nessuno scrittore di fantascienza si sarebbe mai sognato di mettere insieme l’attacco di un virus con le rivolte che contemporaneamente si stanno diffondendo nel mondo come quelle di Hong Kong o negli Stati Uniti.
Sarete tra i primi a sperimentare cosa significa fare un grande festival in tali condizioni. Sentite qualche tipo di responsabilità per questo?
Tanta responsabilità ovviamente. Ma d’altra parte è un’occasione di creatività. Stiamo disegnando dei teatri in grandi parchi e sarà una sfida sperimentarne la fruizione. Sono tutte cose che stiamo affrontando con testardaggine, e saremo per fortuna aiutati da una folta schiera di volontari che hanno risposto al nostro appello. Probabilmente, più importante del programma stesso è la serenità con la quale vorremmo riuscire a far vivere il festival al pubblico e agli artisti, senza isterismi e nel rispetto delle regole.
Sarà perlopiù un’edizione italiana. Se da un lato questo sicuramente toglie spazio alla vocazione internazionale del festival e alla ricerca delle novità, dall’altro io la vedo come una grande occasione per rimettere insieme una parte importante della scena nazionale e offrire un quadro significativo di cos’è il contemporaneo oggi in Italia. Che ne pensi?
Sì vero, si cerca sempre l’esterofilia o lo scoop, ma io credo che questo sia un programma onesto. Sono presenti anche molti artisti dell’Emilia-Romagna, perché all’inizio sembrava che non ci fosse la possibilità di muoversi tra regioni, ma non è una scusa eh. Anzi, sono contento perché in questo modo il programma racconta e dà un quadro di una generazione e mezza, che è un po’ anche la nostra, con persone che hanno un legame forte tra di loro e rappresentano una scena interessante e ancora attiva. Una scelta dettata anche dal fatto che i giovani gruppi che avrebbero dovuto debuttare al festival si sono trovati improvvisamente con le sale prove chiuse, quindi ci siamo detti che sarebbe stato meglio, anche e soprattutto nel loro interesse, rimandarli al secondo atto di dicembre.
È comunque anche un festival molto legato ai temi attuali che coinvolgono la nostra società: quali quelli che vi stanno più a cuore?
Sicuramente la scelta di devolvere parte degli incassi a Mediterranea Saving Humans si inserisce nella riflessione sulle nuove schiavitù, messa in scena tra l’altro da Abisso di Davide Enia, da Black Dick di Alessandro Berti e dall’unica produzione straniera presente fisicamente al festival, ovvero Sorry but I feel slightly disidentified…, di Benjamin Kahn con il solo della danzatrice Cherish Menzo, uno spettacolo che ragiona su dove termina il noi e dove inizia chi è dall’altra parte.
Tengo molto poi all’interdisciplinarietà, perché il teatro non finisce dove inizia la danza o il cinema, ma le arti hanno la forza di potersi mescolare e intrecciare e la loro contemporaneità è proprio in questo.
In questo senso va un progetto fatto con Milano Filmmaker Festival e TTV di Riccione con alcuni registi che faranno dei ritratti d’autore di alcuni artisti del teatro, della performance e della danza presenti al festival.
Molti altri temi li affronteremo poi nel palinsesto di incontri che abbiamo organizzato a partire dalle domande che come artisti e curatori ci stiamo facendo e vorremmo condividere.
So che in genere non si fa, e non ti chiederò cosa mi consigli di vedere, ma vorrei che almeno mi dicessi quali sono le cose più matte che andranno in scena.
Penso che la follia più grande sia quella degli Zapruder. Il loro Anubi III sarà una sorta di drive-in dove si arriverà in automobile e motocicletta in un grande parcheggio; una fellinata, se vogliamo, molto vicina al loro immaginario di performance, che tra l’altro riprenderanno dal vivo. Un vero e proprio set che farà parte di un trittico su cui stanno lavorando in questo momento. È una roba anche complicata da realizzare e che ci mette anche in crisi, ma siamo contenti di poterlo fare.
Altra cosa molto particolare è il progetto degli El Conde de Torrefiel, gruppo di Barcellona, che ci ha dato delle istruzioni su come realizzare una loro performance per un solo spettatore e un solo attore che non è un attore ma colui che è stato prima spettatore e poi diventa attore… Entrambi avranno una cuffia e chi agisce lo farà seguendo delle istruzioni, mentre chi guarda avrà un testo con della musica che giustificherà quelle azioni. È un rapporto a due molto forte.
E poi il laboratorio per bambini di Claudia Castellucci, sempre un’avventura e qualcosa di magico.
Torniamo un po’ indietro: il binomio Motus-Santarcangelo sembra qualcosa di perfetto. Sia perché il festival nonostante la sua internazionalità è sempre stato molto radicato nella propria (e vostra) regione sia per il vostro rapporto di lunga data. Quali gli episodi più significativi di questa vostra relazione?
Il prossimo anno sono 30 anni dalla prima volta che siamo approdati al festival. Portammo il nostro primo spettacolo, provato in un centro giovani, ancora ventenni. Arrivare a Santarcangelo fu un grande motivo di orgoglio.
Poi ricordo di quando appena usciti dall’università, da poco formati come Motus, vedemmo arrivare in piazza queste macchine giganti con robot e mostri: erano i Mutoid. Non avevo mai visto qualcosa del genere prima e non avevo nemmeno mai visto Mad Max, quindi non conoscevo proprio quell’immaginario. Assistere a questo gruppo di persone che parlavano inglese, arrivati di notte con una parata gigante in piazza è stata sicuramente una delle cose più fantascientifiche alla quale ho partecipato.
Poi tanti altri episodi di visione e condivisione, fino alla bellissima esperienza della direzione artistica del 2010, dove abbiamo capito cosa significa stare dall’altra parte e come concepire un festival come un grande spettacolo teatrale.
E infine quest’inverno, chi se lo scorderà? Avevamo appena chiuso il catalogo e un programma veramente intenso, fatto domanda al ministero per un finanziamento extra e pronti a stampare e poi…è stato davvero strano e intenso.
Qual è il vostro augurio per il futuro?
Sai, il claim del festival è Futuro Fantastico. Certo si rischia di essere retorici a parlare di futuro, ma se c’è una cosa che veramente ci auguriamo è che quello che è accaduto non sia per nulla e che ci sia una capacità di rielaborazione forte. Anche perché temo che il peggio debba ancora arrivare. Per il momento abbiamo un piccolo paracadute che però è troppo piccolo per l’atterraggio. Speriamo che si ricominci in modo cosciente.