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Di aspirapolveri, appropriazioni indebite e zona universitaria: intervista ad Andrea Renzini

quartiere Zona Universitaria

Scritto da Salvatore Papa il 30 settembre 2020
Aggiornato il 6 ottobre 2020

Foto di Giovanni Volpe

Dagli esordi in una scena politica ed eversiva dell’underground dei primi anni ottanta con la collaborazione della storica rivista “Frigidaire” e della scuola bolognese del fumetto, Andrea Renzini è da sempre alle prese con una molteplicità di medium caleidoscopica, unendo la performance al suono e all’installazione, alla rilettura dell’uso fotografico dell’immagine , fino alle incursioni nel mondo della moda e dell’apparenza.
La sua ultima opera, Turbo Surplus, sarà al Museo della Musica dall’1 ottobre al 7 novembre 2020, un’installazione sonora costituita da una serie di aspirapolveri usati e in funzione, la cui bocca di aspirazione è connessa ad una armonica a bocca.

Ne abbiamo approfittato per farci raccontare del suo percorso nell’arte e della sua vita nel quartiere in cui vive da quand’era bambino.

 

Ero da poco arrivato a Bologna e ricordo di un tuo concerto con i Folletto Volkwerk nel Teatro Guardassoni, un teatro nascosto di cui non ho più saputo nulla. Andrea Renzini l'ho conosciuto così. Come mai questa passione per gli aspirapolveri?

Il mio interesse per le macchine aspiratrici o aspirapolveri risale ai primi anni Ottanta, quando insieme a un gruppo di compagni dell’Accademia di Belle Arti formammo un ensemble di improvvisazione chiamato “I Ventriloqui”, dove molti musicisti vennero coinvolti in performance di totale free kaos senza alcunché di prestabilito. Io non essendo un musicista, ma solo un riflesso di esso, scelsi come strumento l’aspirapolvere, che rappresentava per me la potenza centrifuga che tutto attirava a sé: musica, vita vissuta, esperienze, polvere e specialmente rumore.

Il “furto” dei marchi è diventata una tua pratica abituale negli ultimi anni. Come mai questa “cleptomania”?

Il rubare o riutilizzare in diverso contesto loghi di marchi famosi come i fazzoletti “Tempo” o altri come “Sky” e “Infinity” rientra in quel concetto un po’ politico di appropriazione indebita o esproprio artistico di concetti come il tempo, l’infinito, il cielo, che le varie multinazionali hanno utilizzato per i loro interessi commerciali.

Molte delle tue opere nascono insieme alla tua compagna Silvia Spada. Qual è il vostro concetto di moda?

Con Silvia Spada ho cominciato un’esplorazione più sistemica della realizzazione di concetto di moda. Insieme creiamo diverse linee di vestiti che mutano continuamente nome e forme, senza essere vincolati da un nome solo come avviene normalmente per la moda, in una sorta di improvvisazione permanente sul concetto di stile e dell’apparenza. Contemporaneamente queste esperienze mi permettono di unire e allargare il processo creativo nel linguaggio dell’arte con altri strumenti, sia comunicativi che emozionali.

Raccontaci della tua mostra al Museo della Musica. Perché lì e quali i legami tra la storia della musica lì conservata e quello che proporrai?

La mostra Turbo Surplus che ho ideato appositamente per il Museo della Musica è fondamentalmente un’installazione sonora composta da diversi aspirapolveri sincronizzati che aspirano una singola nota attraverso un’armonica a bocca per un determinato intervallo temporale. Queste macchine aspiratrici attraggono dentro sé tutta l’aura della storia della musica e della tradizione. Essendo strumenti ormai obsoleti nella loro post-modernità, questi aspirapolveri nella loro funzione centrifuga attraggono a sé con potenza il futuro, che velocemente viene risucchiato verso il passato, trasformandosi in post-antico.

Hai sempre vissuto in zona universitaria. Com’è cambiata - se è cambiata - secondo te?

Abito nella zona universitaria dal 1968, dopo qualche anno vissuto con la famiglia a Roma. Ho sempre vissuto in questa zona e chiaramente la percezione è cambiata molto più lentamente che magari per altri. Tutto è cambiato nel rapporto tra le persone, nella felicità del vivere alla esigenza di combattere e di opporsi a tutto in maniera vitale e creativa e a volte più distruttiva.

Avendo vissuto gli anni 80 potresti, immagino, raccontarci cose incredibili sul tuo quartiere. Hai qualche aneddoto indimenticabile?

I vissuti e i ricordi sono molteplici e densi di facce e azioni tra cui non saprei scegliere. Forse la percezione più nitida è la rivolta del ‘77 a cui devo il mio battesimo esistenziale adolescenziale, quell’atmosfera di insurrezione che si respirava nelle cose e nelle persone ovunque, con le esplosioni, le rivolte, gli espropri proletari, il Living Theatre in Piazza Verdi accampato per giorni e notti a declamare e vivere sotto il cielo. Insomma la libertà nella sua forma più ludica e autentica.

Conoscevi, tra l'altro, bene Andrea Pazienza, Piero Manai, Pier Vittorio Tondelli. Cosa ricordi di loro e cosa ti hanno insegnato quelle tue frequentazioni?

Tutti questi amici che citi, e aggiungerei anche Roberto “Freak” Antoni, sono stati degli esempi e dei non maestri ma sempre dei pari, tutti eravamo coinvolti nell’esprimere quello che eravamo in quell’istante, senza steccati ideologici o rendite di posizione. Andrea era ineguagliabile per estro e vivacità, Piero cupo e sarcastico con un humor al vetriolo, Pier Vittorio un’intellettuale finissimo con una smodata esigenza di vivere in maniera pericolosa. Ho imparato tramite loro il senso dell’eccesso nel termine più alto.

Oggi qual è il tuo luogo preferito del circondario?

Sicuramente la libreria Modo, che unisce cultura e socialità come una sorta di comunità intergenerazionale. Pensa che già da prima era una libreria anarchica e punto di aggregazione, e lì a fianco c’era una tipografia dove nel 1980 stampai il mio primo lavoro insieme ad Aldo Vignocchi, la fanzine “Cibi Sonori”. Tutto cambia, ma alcuni luoghi mantengono l’anima più di altri.

Mi è capitato un paio di volte di imbucarmi alle tue feste. Quindi so che sei un grande festaiolo. Quali i party più incredibili ai quali hai partecipato?

I party per eccedenza non sono memorabilizzabili. Le feste come la vita sono impreviste, c’è chi come me ama arrivare per primo e andare per ultimo.

Da poco è ritornata una petizione per riportare i totem di Pomodoro in Piazza Verdi. Cosa ne pensi?

Sono favorevole a riposizionarli in Piazza Verdi, sono fantastici…anche loro sono un simbolo degli Indiani Metropolitani che li avevano eretti come loro totem.