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Massimo Cirulli

Nel cuore della neonata Fondazione Massimo e Sonia Cirulli, dove regna la migliore cultura visiva italiana del XX secolo

Scritto da Elisabetta Modena il 11 giugno 2018
Aggiornato il 4 luglio 2018

Luogo di residenza

Bologna

Attività

Collezionista

Ha inaugurato al pubblico con una bella mostra intitolata Universo Futurista lo scorso 21 aprile la Fondazione Massimo e Sonia Cirulli, costituita nel 2015 e frutto della trentennale esperienza dei due collezionisti interessati a valorizzare la cultura visiva italiana del XX secolo dalla nascita della modernità fino agli anni del boom economico.
Abbiamo incontrato Massimo negli spazi della nuova sede, un edificio progettato nel 1960 dagli architetti e designer Achille e Pier Giacomo Castiglioni per Dino Gavina, sulla Via Emilia a San Lazzaro di Savena. Seduti tra cassettiere, cartelle piene di bozzetti, manifesti e quadri appoggiati ovunque gli abbiamo fatto alcune domande sul progetto attuale, sui progetti futuri e su Bologna, la città che ha lasciato all’inizio degli anni 80 per andare negli Stati Uniti da dove è rientrato da qualche anno.

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A fine aprile è stata inaugurata la prima mostra, Universo futurista, nel nuovo spazio aperto al pubblico della Fondazione Cirulli. Com’è andata?
Siamo molto contenti di come la mostra e il progetto in generale sono stati recepiti: pensiamo di aver avuto un bel successo, che però ora bisogna consolidare. La cultura non è una partita di calcio.

Si tratta di farsi conoscere, ci vorrà tempo…
C’è un’offerta talmente vasta! Credo che la Fondazione parta con un certo vantaggio dal momento che oltre all’ “hardware”, il contenitore, l’edificio dei Castiglioni, ha anche un “software” che sono le circa 200.000 opere che compongono il nostro archivio e che abbracciano la storia d’Italia dall’inizio del secolo scorso agli anni ’70: potremmo progettare mostre di pregio per anni lavorando solo sull’archivio.

Poi l’altra attività, che era propria anche del Massimo and Sonia Cirulli Archive è quella del prestito…
Sì, il prestito di opere per progetti altrui, in altri musei, anche per finanziare le attività della Fondazione, perché qui – per fortuna o purtroppo – è tutto privato e c’è da far tornare i conti. La cultura ha un costo molto alto: costi curatoriali e di allestimento, assicurazioni, imballaggi e trasporti, personale, pubblicità, ecc. Mi sembra corretto che il visitatore non entri nei musei a costo zero ma contribuisca egli stesso al successo di uno spazio espositivo sostenendolo con l’acquisto del biglietto e del catalogo. Serve anche a dare valore alle cose. All’estero, per esempio alla Tate e prima ancora al Met, usano mettere un contenitore “Give what you wish”: chissà se anche in Italia può funzionare.

L’attuale mostra inaugurale per lo spazio è dedicata al Futurismo. Come mai questa scelta?
È un tema al quale siamo molto affezionati, molto trasversale e tocca tutte le forme dell’arte: dall’architettura al cinema, alla fotografia, alla pittura, scultura, disegno progettuale, pubblicità alla cultura materiale. Abbiamo affrontato il tema del futurismo dal punto di vista privilegiato della nostra collezione utilizzando quella varietà di linguaggi che auspicavano gli stessi futuristi quando parlavano di “arte totale” che doveva rivoluzionare la vita quotidiana in ogni suo aspetto, “rallegrandola” come scrivevano Balla e Depero nella “Ricostruzione futurista dell’Universo” del ’15. È un modo di dare una chiave di lettura diversa, come era poi intenzione dei futuristi, che volevano bruciare i musei…erano abbastanza scatenati!

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I curatori della mostra, Silvia Evangelisti (ndr: Docente a contratto presso la Scuola di Lettere e Beni Culturali dell’Università di Bologna e già direttrice di Arte Fiera) e Jeffrey T. Schnapp (ndr: fondatore e Direttore di metaLAB@Harvard e docente dell’Università di Harvard) sembrano lo specchio di una volontà di valorizzazione della cultura italiana in un contesto internazionale.
Sì, è stata una collaborazione molto proficua che si è avvalsa del supporto di un comitato scientifico internazionale, con studiosi dal Politecnico di Milano, a Cambridge UK alla NYU.
La selezione delle oltre 200 opere che compongono la mostra è frutto di una precisa scelta curatoriale che nasce innanzitutto dall’intenzione di voler valorizzare la ricchezza e la diversità della nostra collezione ma anche di voler rappresentare la ricchezza dell’universo futurista stesso che ha toccato ogni ambito artistico, dalle arti applicate al settore commerciale, e non solo quello delle belle arti. Mostre con i capolavori del Futurismo sono già state viste a Milano, a Roma e al Guggenheim di New York e non volevamo riproporre l’ennesima mostra sul Futurismo. Accanto a opere della cultura materiale come il manifesto di Prampolini per Thaïs (1917), il primo film futurista o i manifesti oversize come quelli per le trasvolate atlantiche, dalla grafica bellissima e dai colori accesi per catturare l’interesse del consumatore, o il manifesto “M” (Birra Metzger) di Nicholay Diulgheroff, geniale, un pezzo che rompe tutti i canoni estetici, in mostra non mancano quadri importanti, come una “velocità” di Balla e un olio di Russolo, entrambe esposti all’Esposizione Universale di San Francisco nel 1915, così come opere di Licini esposte a Bologna nel 1913 o il quadro di Ambrosi per la trasvolata Atlantica, appartenuto alla famiglia Marinetti. Solo questi valgono il costo del biglietto.

È chiaro il riferimento al rapporto tra l’arte cosiddetta “alta” e quella “popolare”.
Ci sono tre libri che tengo sulla scrivania: High and Low, (ndr: catalogo della mostra High and Low: Modern Art and Popular Culture, The Museum of Modern Art, New York, 1990–1991); Art et pub (ndr: Art et publicité 1890-1990, Centre Georges Pompidou, Paris, 1990-1991) e il catalogo della mostra The Italian metamorphosis fatta da Celant per il Guggenheim (ndr: The Italian metamorphosis, 1943-1968 a cura di G. Celant, Solomon R. Guggenheim Museum, 1994-1995; Triennale di Milano, 1995; Kunstmuseum Wolfsburg, 1995). Questi sono libri su cui mi sono formato io, che non ho studiato arte. Si parla della trasversalità dell’arte e mi affascinano perché sono fuori dagli schemi e fanno capire che la nascita delle avanguardie, il Futurismo in primis, è stato un momento fondativo dell’arte moderna e il dopo è stato una contaminazione del prima. Il XX secolo è stato un secolo di forti cambiamenti e non solo per le arti maggiori.

Nella sua collezione emerge il rapporto tra artisti e industria, un aspetto non sempre sufficientemente considerato.
Adesso è di moda fare le mostre di “cultura materiale”. All’estero, a New York in particolare, esiste da sempre questa tendenza alla multidisciplinarietà e alla contaminazione, mentre qui in Italia si è capito solo da poco che è impossibile rappresentare il XX secolo con le sole arti cosiddette “maggiori”. I manifesti per esempio – il nostro archivio ne conserva alcune migliaia – sono talmente evocativi che ho sempre pensato che non dovessero essere “discriminati” come arti minori.
I più grandi artisti italiani hanno realizzato cartelloni pubblicitari per importanti aziende creando veri e propri capolavori di grafica e di comunicazione. Il Futurismo ha dialogato moltissimo con la cultura dell’industria come si vede dalle opere grafiche di Bruno Munari per Olivetti, ad esempio, o di Fortunato Depero che ha disegnato campagne pubblicitarie per Campari e la stessa bottiglietta, tutt’ora in uso. Si può dire che il Futurismo abbia aperto le porte dei musei al mondo del consumo e della produzione.

Questa è anche la relazione tra questo “hardware” e questo “software”, giusto?
Questo posto è pieno di energia, perché qui hanno camminato e pensato grandi artisti come Lucio Fontana, Marcel Breuer, Marcel Duchamp, Man Ray, Carlo Scarpa, i Castiglioni… Sono stato molto fortunato ad aver intercettato questo posto, un contenitore perfetto per una raccolta come la nostra. Sembra quasi che questo edificio sia stato progettato per accogliere il nostro archivio.

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Trasformare questo spazio così caratterizzato e così significativo in un museo era forse una delle sfide più difficili. C’era il rischio di sentirsi dire: “era meglio prima”.
Sì, non è stato semplice, penso però che ci siamo riusciti! Anche grazie all’architetto Bassi (Eroicoarchitettura, Bologna) che ha curato la ristrutturazione, grazie all’architetto Terragni (StudioTerragni Architetti, Como-New York) che ha lavorato sugli interni con i guanti di velluto, nel pieno rispetto del luogo, apportando modifiche imprescindibili che dovevano renderlo idoneo ad ospitare uno spazio aperto al pubblico con una rigida normativa da rispettare, ma senza stravolgerlo e utilizzando elementi già costitutivi dello spazio come il vetro il ferro e la grafica. Su questo ultimo punto è stato notevole il lavoro svolto da Daniele Ledda (xycomm, Milano). Abbiamo avuto grande apprezzamento da tutti.

La collezione continua a crescere?
Ho appena acquistato una bellissima collezione di manifesti di mostre di pop e miminal art delle più grandi gallerie internazionali, appartenuti alla mitica Palma Bucarelli. Era materiale che stava per essere disperso: ci sono le prime mostre di Andy Warhol a Monaco di Baviera nel 1964, gli anni della nascita della Pop Art. Questa collezione può fornire una trama molto interessate per una futura narrazione, nell’ottica dell’utilizzo della cultura materiale come l’unica così efficace da trasmetterete l’anima di un determinato periodo. Invece la cartella con cui sono entrato poco fa contiene cinquanta bozzetti a china di un architetto razionalista, Ludovico Quaroni, per l’Auditorium di Roma nel 1934, che poi non è stato realizzato, materiale di grande qualità.

Avete già in programma un’altra mostra?
Abbiamo a disposizione molto materiale. Dal momento che il nostro archivio si occupa di arte italiana sarà sicuramente qualcosa sull’Italia, magari partendo da una lettera di Giuseppe Mazzini scritta da Londra ai compagni di Napoli, che conserviamo in archivio.

Come vede oggi Bologna, dopo tanti anni passati all’estero?
Sono partito negli anni 80, però – come dicono i newyorchesi “Manhattan high” – sono un “Bolognese high”, che tifa Bologna, che mangia bolognese, che sta molto bene a Bologna. Bologna è una città stupenda, a misura d’uomo, da cui è facile partire per tutte le destinazioni, nazionali, europee e internazionali. Poi come sempre siamo critici, ma è normale. Molti oggi si trasferiscono all’estero per lavoro, è senz’altro un’ottima esperienza, ma è bello anche ritornare e far fruttare la propria esperienza a casa.

Mettere a disposizione della città la sua collezione…
Sì, nel tentativo di contribuire alla formazione delle giovani generazioni o di coloro che arrivano da paesi extracomunitari e sanno poco e niente dell’Italia. Almeno è quello che auspichiamo.

Cosa si augura quindi ora?
Di fidelizzare il pubblico che visita la Fondazione. Siamo consapevoli che ci vorrà un po’ di tempo, ma fiduciosi che tanto impegno da parte nostra porti buon frutto.