Nel 2004 nasceva a Bologna Canicola, casa editrice e, prima di tutto, progetto culturale per la promozione di un certo tipo di fumetto contemporaneo e disegno. Nonostante tutti i cambiamenti del contesto, Canicola è ancora oggi un caso raro per la riconoscibilità quasi radicale della propria poetica frutto di un ostinato lavoro editoriale senza compromessi che punta sui giovani artisti e incrocia la ricerca grafica alle potenzialità letterarie, tematiche e politiche del racconto. Oltre le pubblicazioni stesse, Canicola si occupa di divulgazione attraverso esposizioni, laboratori e una rete di relazioni internazionali con festival, gallerie d’arte, musei e istituzioni culturali, che hanno contribuito indirettamente a rendere Bologna una delle capitali europee per il fumetto d’autore e l’autoproduzione.
Un lavoro enorme il cui immaginario ruota spesso attorno ai margini e che dai margini del centro storico prende forma, all’interno di un appartamento di via Ranzani, grazie alla coppia formata da Edo Chieregato e Liliana Cupido.
Ecco cosa ci ha raccontato Edo.
Come sei arrivato a Bologna e perché hai scelto di restarci?
Appartengo a quella lunga ondata arrivata a Bologna per il Dams e poi tra quelli che, da cosa nasce cosa, ne sono rimasti arrendevolmente intrappolati. All’università mi sono costruito un percorso sul fumetto un po’ carbonaro e quando ho finito pensavo che sarebbe stato bello fare un festival in città. Ho incontrato prima la redazione di Mano, poi Coconino fuggevolmente, ma soprattutto Hamelin, e dentro Hamelin la morosa, con i quali ho fondato Bilbolbul. Non ho mai avuto tregua.
Canicola come nasce e com’è cambiata in questi anni?
Canicola ha vissuto almeno tre vite. Nella prima nasciamo come gruppo di autori con la voglia di ricercare percorsi nostri del fare fumetto, ma ci ritroviamo da subito anche come divulgatori. Agli inizi del 2000 a Bologna c’erano case editrici come Black Velvet, Coconino e altre, che proponevano, tra le prime, un certo fumetto: la scena indipendente americana, i maestri del contemporaneo, l’avanguardia soffice, ecc. Canicola era un laboratorio e si muoveva di scarto indagando segni narrativi e un formato breve di racconto che era laterale allo storytelling più rassicurante di molte graphic novel.
Dopo i primi numeri della rivista di gruppo, dopo i riconoscimenti nazionali e internazionali, decidiamo di sciogliere quell’esperienza e di aprirci a un progetto di area anche grazie ai rapporti che avevamo sviluppato all’estero in particolare con i finlandesi, i tedeschi, i cinesi e gli americani. È la seconda vita. Nella terza dal 2015 circa, diventiamo più editori di prima, con l’inserimento di nuovi autori che condividono il nostro pensiero. Anche le progettualità e le attività attorno ai libri diventano sempre più strutturate, in particolare attorno alla collana per l’infanzia. Ora siamo in una fase di forte messa a fuoco, si tratta di verificare una nuova vita professionale, più matura e sostenibile sia in ambito associativo che editoriale. L’interesse è meno focalizzato sul linguaggio che in origine, ora ci facciamo più domande sul senso ultimo di ciò che facciamo e se possiamo permetterci il lusso di farlo. Non facile.
Il vostro esordio fu in qualche modo all’XM24: cosa ne pensi di tutta la vicenda che ha poi portato alla sua distruzione?
Non eravamo di base all’XM24 ma il nostro esordio pubblico coincide con la prima edizione dell’Happening underground nel 2004. Cosa vuoi che ti dica… la chiusura di un centro sociale è sempre triste, non ho mai vissuto attivamente gli spazi autogestiti di Bologna ma soprattutto negli anni novanta sono stati per me luoghi seminali di formazione e conoscenza. Chiudere l’XM24 ha significato chiudere un luogo importante di aggregazione e sperimentazione in una città che ha una forte tradizione culturale in questo senso.
Il punto di forza di Canicola è certamente la riconoscibilità della poetica, tutti gli autori sembrano condividere qualcosa nel profondo. Che cosa secondo te?
Credo anche io che per molti autori e autrici che hanno pubblicato con noi ci sia qualcosa che un po’ li unisce. Non so bene, è una cosa per certo degli inizi e di altri che si sono aggiunti via via. Non vorrei parlare di “necessità” o “urgenza” o “onestà” parole che più le diciamo, più rischiano di diventare vuote, forse è il voler andare oltre la pubblicazione, cioè un’ostinazione a fare bene e in profondità non per il libro per sé, ma per sé e per dei lettori, anche pochi, con cui stabilire un patto senza compromessi. In questo c’è stata anche una forma di “autismo”, anche di non voluta “professionalità”, di non concessione, ma questo credo abbia sempre prodotto una tensione espressiva forte e non banale.
Ho letto in un’altra intervista che tu e Liliana prendete parte all’editing delle storie. Immagino sia un processo molto delicato. Come riuscite a evitare conflitti con gli autori?
I conflitti non li evitiamo, ci sono stati quelli costruttivi dell’inizio e in forme diverse ci sono ancora. Non si tratta di prendersi a calci, ma di trovare una forma di dialogo e intesa ogni volta diversa. A volte è immediata altre serve più tempo. Gli autori e le autrici in generale sono per natura un po’ diffidenti, sono un po’ più gatti che cani e va usata ogni furbizia. L’ostinazione che mettiamo nel lavoro di editing è totale. Viviamo i libri che produciamo come nostre creature ma ogni intervento, piccolo o meno piccolo, genera sempre una catalizzazione di processi.
Non facciamo differenza tra autori o autrici professionisti che comunque necessitano solo di piccoli confronti, ed esordienti, anzi la tensione maggiore è proprio per questi ultimi dove la delicatezza sta proprio nel conoscersi. Si tratta ogni volta di sfoderare le competenze migliori per entrare in empatia con chi disegna e racconta. Solitamente chi produce non è abituato a un vero confronto, è abituato a un lavoro solitario, e semmai oggi gli autori sono più abituati a cercare il consenso nei social piuttosto che un editor che rompa le scatole.
Riguardo invece al vostro progetto per i bambini, cosa vi differenzia dal resto dell’editoria e laboratori per l’infanzia?
La collana di fumetto per bambini lo ritengo un progetto della nostra recente maturità editoriale. Nel 2010 ai tempi della rivista a progetto avevamo già prodotto un numero della rivista dedicato ai bambini, in quel caso si trattava di “provocare”, di dire che autori dall’immaginario potente potevano fare fumetti per bambini anche se non li avevano mai fatti. Volevamo anche suggerire che con le piccole lettrici e i piccoli lettori si poteva osare in varie direzioni, compreso il disegno naturalmente. Nel montaggio dei materiali inediti avevamo inserito anche i disegni del fiammingo Brecht Vandenbroucke e una storia della lettone Anete Melece, entrambi per adulti ma che noi ritenevamo possibili in quell’insieme un po’ pazzo. Quel numero della rivista esaurì in fretta e ricevette un premio, ma non era pensato come un vero prodotto per l’infanzia. Dal 2017 con la produzione per bambini cerchiamo di mescolare quell’esperienza, quello sguardo di rialzo con una forte attenzione al lettore bambino sia in termini di fruizione che di suggestioni pedagogiche. In sostanza sono libri che nascono dalla ricerca degli autori, che spesso è una ricerca intima nei confronti dell’infanzia stessa con cui tendenzialmente non si relazionano. C’è poi tutta una progettualità con i piccoli legata al “fare” a partire dai libri: dalla lettura al disegno, dalla realizzazione di un booktrailer o di una piccola autoproduzione, di manifesti, ecc. In generale nei laboratori cerchiamo di mescolare i linguaggi per cui ci è capitato di lavorare al Festival di Santarcangelo in dialogo con la danza, al Festival di Internazionale con la grafica, al Milano Film Festival con l’animazione, a Uovo Kids con una installazione, a Cotygnork con delle maschere, ecc. Ogni laboratorio nasce da spinte o esigenze diverse, si può andare verso una dimensione pedagogica del fare o del vedere, oppure spingere sulla promozione della lettura, ma anche costruire dei momenti ludici attraverso i quali divertirsi con il disegno e le storie.
Esiste secondo te una “scena bolognese”?
Non lo so, forse non esiste più. Mi spiego. La tradizione del fumetto a Bologna, almeno da Magnus in poi, si è distinta per una forte vocazione autoriale e sperimentale. Nei primi anni duemila la nostra città ha contribuito parecchio alla rinascita di un movimento e di una cultura del collettivo e dell’autoproduzione in Italia e questo ha visto Canicola tra i protagonisti, assieme alle esperienze di Self comics e di ernest, a cui sono poi seguite Delebile, Lök, Canemarcio, Brace, Doner Club tutte esperienze nate all’interno dell’Accademia di Belle Arti dove da quindici anni esiste un corso di fumetto e illustrazione dove ho il piacere di insegnare. A Bologna ci sono sempre più autori e più autrici, nonostante molti se ne vadano, e ci sono molti addetti ai lavori, ma forse oggi più che di una scena bolognese possiamo parlare di una scena di giovani studenti dell’Accademia, che durante gli anni della formazione si misura spesso con l’autoproduzione, e che inizia a dialogare con l’editoria in numero sempre maggiore, in tempi sempre più brevi e con risultati spesso notevoli.
Veniamo al vostro quartiere: come lo descriveresti?
Bah… noi viviamo in via Camillo Ranzani. Prima di trasferirci qui pensavamo fosse la via più brutta di Bologna ma quando abbiamo trovato casa in una sua piccola e silenziosa zona interna, abbiamo iniziato a volerle bene… fino a pochi mesi fa sembrava che stesse nascendo un isolato autonomo per noi ideale, con una pizzeria, il mercatino dell’usato, i bar, il negozietto con pane, frutta, vino a km zero, il club delle auto d’epoca, una parrucchiera, il tatuatore, il negozio con i vestiti usati per i bimbi, una moschea, l’associazione dei giochi di ruolo, ecc. Ora, in pochissimo tempo, molte di queste realtà al piano terra dei palazzoni dove viviamo sono chiuse e gli spazi trasformati in monolocali tristi e bui e così adesso sembra di vivere in un dormitorio. Via Ranzani è sul limitare tra l’ex quartiere San Vitale e il ponte di San Donato, ora il quartiere è unico (San Vitale-San Donato) sebbene le differenze tra le due zone siano nette. Quello che mi piace di San Donato è che spesso mi da la sensazione di essere un quartiere periferico di una città molto più grande di Bologna, e nello stesso tempo ha alcune peculiarità di un piccolo centro abitato. C’è qualcosa nel movimento deciso delle persone, e in certe dinamiche sociali, in cui sento buona condivisione umana nonostante la lontananza.
Quali sono i tuoi luoghi preferiti di San Donato?
Io ho quattro figli piccoli e per noi il quartiere è soprattutto la ricerca di spazi verdi dove giocare a basket, dare calci al pallone e sgambettare in qualche modo. Quelli più lontani dove ci spingiamo di tanto in tanto sono il parco del “Virgolone” al Pilastro, dedicato a Pasolini, dove ci sono le statue di Nicola Zamboni e un teatro all’aperto, è un’area piuttosto grande ma solitamente poco frequentata, dove all’ingresso c’era un ristorante siciliano piuttosto spartano, ora è una pizzeria. Attraverso la ciclabile arriviamo fino al Casalone per andare al Parco San Donnino dove c’è un campo da basket molto tranquillo con adiacente un campetto per giocare a calcio, e una serie di sali e scendi dove si può fare un po’ di salti con la bici (siamo dietro la Multisala Medusa). Poi mi piace il campo di basket al Giardino Benjamin Moloise, sotto il ponte di via Libia, che ha un’atmosfera un po’ newyorkese con le auto che ti passano sopra alla testa. Ma i due luoghi dove più amiamo andare sono dei piccoli giardini, un po’ al margine del quartiere. Il primo è vicinissimo a casa ed è il giardino “Lorenzo Giusti” in Cirenaica, un ex fazzoletto di terra strappato alle siringhe, le cacche dei cani e ai rifiuti, gestito dall’associazione Spazi aperti e un manipolo di volontari, con un orto e una piacevole atmosfera domestica. L’altro, al primo posto, è il “il codino” o anche detto – sempre da noi in famiglia – “il metafisico”: è il parchetto che c’è dietro al Centro sociale per anziani Scipione dal Ferro in via Sante Vincenzi. Per me è un luogo di pace e un po’ sospeso, dove ci arriviamo da via Ranzani con un percorso misto tra palazzoni, marciapiedi, sensi unici vietati, stralci di piste pedonali improbabili e infine costeggiando la ferrovia dove per un frammento sembra di essere in campagna con anche sosta all’enorme albero di more! Il parco è frequentato per lo più da famiglie di immigrati e l’atmosfera è molto lontana dai Giardini Margherita, c’è molta quiete, e soprattutto in tarda mattinata il sole picchia forte e diretto.
Ti viene in mente un libro (nel vostro catalogo o fuori) che potrebbe in qualche modo essere ambientato potenzialmente in San Donato?
Sì sono due storie urbane e sono racconti di due studenti dell’Accademia. Il primo è Il grifone d’oro di Gianluca Ascione che mette al centro una relazione di due giovani che parte da Grindr e dove affetto, sesso e ansia di socialità si mescolano e si capovolgono costantemente. E poi Lara di Ida Cordaro, una storia in punta di piedi, dove ogni dettaglio ha un peso enorme nello svelarci con sottigliezza la violenza domestica dietro le mura di una casa che può essere quella di tutti noi. Entrambi i racconti hanno atmosfere ed elementi che si sposano bene con il nostro quartiere.