Altri tre anni con Santarcangelo: quand’è arrivata la proposta, cos’hai pensato? E perché hai accettato?
Quand’è arrivata la proposta ci ho pensato a lungo, e in prima battuta ho rifiutato: perché mi sembravano troppi altri tre anni, perché non c’erano sicurezze finanziarie neanche minime, perché non ero sicura del sostegno politico e istituzionale di cui un festival ha bisogno. Poi è arrivato un segno chiaro di sostegno, e con questo si è riaccesa una fiducia. Ho accettato per accompagnare ancora un po’ Santarcangelo nel cambiamento che abbiamo iniziato negli anni scorsi, per dare più chiarezza e forza al nuovo profilo di festival a cui stavamo lavorando; ho accettato per fiducia in un Sindaco che era in carica da pochi mesi e che mi pare abbia dei sogni per la città; ho accettato per tentare di andare fino in fondo nel proporre un’idea di festival che sentivo di aver tracciato, con Rodolfo Sacchettini (e nel 2012 anche con Cristina Ventrucci) nel triennio precedente, ma che mi sembrava avesse bisogno di più coraggio. Ho accettato, infine, per accompagnare un gruppo di lavoro e per preparare un passaggio che nell’autunno scorso, quando mi è stato proposto di continuare a guidare il festival, sarebbe stato troppo brusco e sarebbe accaduto in un momento troppo fragile per non comportare dei rischi seri.
In Santarcangelo è molto importante la relazione degli artisti coi luoghi, ma anche con le persone che li abitano: cosa succede poi a quei luoghi e a quelle persone quando il festival finisce?
Ce lo chiediamo incessantemente. È più semplice immaginare, raccontare, che cosa accade prima, quando il festival si prepara e molti progetti e processi di creazione coinvolgono cittadine e cittadini di Santarcangelo, in modi diversi e con intensità a volte altissime. Dopo resta una scia che ha bisogno di cura, dopo restiamo noi e il lavoro quotidiano che continue e tesse insieme memoria e immaginazione o anticipazione del futuro. Dopo resta, credo, la sensazione di un cambio climatico che ci ha colti, di aver attraversato una diversa densità dell’aria, resta una nostalgia e resta, spero, un desiderio.
Si parla quest’anno di vocazione “politica” del festival. In che senso?
In sensi diversi, a partire dal piano più ovvio di una dimensione politica della moltitudine, del festival come creazione di una moltitudine di sconosciuti che per un attimo diventa una comunità riunita attorno alla scena. Questo è vero forse per ogni festival, o almeno per ogni edizione di Santarcangelo. Quest’anno è molto presente un piano più sostanziale nei contenuti, con la scelta di riunire artisti che con il loro teatro ci aprono finestre su contesti politici specifici – dalla Birmania del Teatro delle Albe all’Ungheria di Béla Pintér alla Grecia di Deflorian e Tagliarini, alla Palestina di Arkadi Zaides – e ci chiedono di guardare là dove non vorremmo, là dove fa male. E ancora, il re-enactment teatrale di Milo Rau con Breivik’s Statement e con the Moscow Trials, che solleva una questione scottante sul rapporto tra realtà e rappresentazione e che sfuma i confini tra reale e possibile, riportando in scena delle parole così pericolose da essere state sottratte alla dimensione pubblica al tempo della loro pronuncia in tribunale. E l’esercizio di immaginazione costituzionale di Christophe Meierhans, dove la scena diventa concretamente il luogo in cui ripensare le forme sociali del nostro vivere insieme.
Cosa non dovremmo assolutamente perderci quest’anno?
È una domanda impossibile, lo sappiamo entrambi! Ma direi almeno Milo Rau, Markus Ohrn, Béla Pintér, Amir Reza Koohestani, Arkadi Zaides: perché sono artisti straordinari che è rarissimo vedere in Italia, e perché portano in scena visioni di mondo, di teatro, di politica, radicali e diversissime. La Piattaforma della Danza Balinese, perché nello sforzo comune di Michele Di Stefano, Fabrizio Favale e Cristina Rizzo c’è un’intuizione e c’è un discorso, entrambi fondamentali, sulla danza ma ancor più sulla necessità di un habitat e di un contesto per la creazione, ed è un gesto da leggere accanto alla presenza di coreografi come Mette Ingvartsen e Boris Charmatz.
Non solo ricerca e creazione, ma anche festa: qual è la tua idea di divertimento? E, nonostante l’intensità lavorativa di quei giorni, ci sono dei momenti in cui riesci a divertirti?
Mi diverto, ci divertiamo nell’incendio del fare, nell’assistere a una perdita di controllo che mette in vibrazione in reale, alla libertà che si prendono gli artisti, all’intensità dell’incontro tra i lavori e il pubblico, nel vedere una piccola città trasformarsi, nel sentirci sindaco e sentirci ospiti allo stesso tempo. Non so se questa sia in assoluto la mia idea di divertimento, ma è forse la forma più alta di presenza me stessa e agli altri di cui io abbia mai fatto esperienza, e so che passa da uno spossessamento di sé che è insieme spaventoso e liberatorio. È un viaggio da cui è sempre difficile tornare, ed è un viaggio condiviso con una moltitudine di conosciuti e sconosciuti.
Tu vivi a Cesena, conosci quindi abbastanza bene la Romagna immagino: ci sono dei luoghi di questa terra a cui sei particolarmente legata?
Ci sono dei paesaggi – certo Appennino soprattutto, certe linee e certi colori di quel paesaggio – e ci sono dei luoghi, che sono in particolare luoghi di arte e di artisti. La mia geografia romagnola è iniziata proprio a Santarcngelo al festival, ed è passata per l’Orto del Fuoco di masque teatro a Forlì, il Rasi del Teatro delle Albe a Ravenna, il Comandini della Socìetas a Cesena…e con il tempo la mappa si sta naturalmente arricchendo, sempre in un equilibrio tra paesaggio e creazione artistica.
Ti chiedo anche stavolta un pezzo musicale con cui vorresti far partire quest’edizione.
Diamonds di Rihanna. Che è una scia della scorsa edizione, un pezzo che ci è rimasto addosso da uno spettacolo bellissimo, e che per gli spettatori che l’hanno visto è ora legato a quell’immaginario – un cortocircuito che è anche un augurio al festival che sta per iniziare e a chi lo attraverserà, shine bright like a diamond.