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Silvio Salvo

L'arte contemporanea deve essere respingente

Scritto da Pietro Martinetti il 23 settembre 2021
Aggiornato il 24 settembre 2021

In tempi moderni e nella recente contemporaneità, il lavoro della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ha permesso a Torino di restare una città d’arte. Grandi mostre, la collezione, le scuole di curatela, la mediazione culturale hanno trasformato una grande galleria in un’istituzione riconosciuta nel mondo in tutte le stanze del sistema dell’arte, con la sua inventrice Patrizia Sandretto puntualmente nella Power 100 di Art Review, la classifica di fine anno che misura chi influenza l’art world. A influenzare tanta popolarità è anche la forza, quella che scorre potente nella saggezza di Yoda, il maestro che si occupa della propaganda della Fondazione Sandretto. Yoda è l’interfaccia di Silvio Salvo, la mente che attraverso la macchina di comunicazione social digitale della Sandretto crea universi di narrazione dove la fondazione diventa il set dell’attualità e il place to be del pubblico. Silvio Salvo ha fatto della comunicazione della Sandretto un caso accademico, finendo in libri e tesi di laurea, andando nelle università e facoltà d’arte a raccontare il suo metodo. Zero lo incontra per parlare di comunicazione dell’arte del XXI secolo e di Torino, Borgo San Paolo.

“Ma l’importante, per quanto mi riguarda, è fornire tutti gli strumenti utili alla comprensione o all’analisi di un’opera.”

 

Silvio, guru della comunicazione dell’arte contemporanea. Umberto Eco disse che esistono due tipi di artisti, i provocatori e i consolatori. Quali preferisci?

Innanzitutto se Umberto Eco fosse ancora in vita gli manderei il quadrato semiotico dell’#OccupySandretto. Probabilmente scriverebbe un editoriale sul Corriere della Sera dal titolo “fenomenologia di un impostore”. Decisamente i provocatori: chi provoca una reazione positiva o negativa, fa nascere un dibattito attorno a un tema. Se il dibattito dura mezza giornata su twitter poco importa. Trovo invece che la provocazione per ottenere visibilità sia un abominio. Se Pio ed Amedeo, per esempio, hanno ricevuto un premio per aver innovato il linguaggio televisivo, a Valerio Lundini dovrebbero dare il Premio Nobel.

 

Nella comunicazione social della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che curi da più di dieci anni, ci sono la cultura pop, i personaggi pubblici, la tv trash, il cinema e l’attualità, il real time storytelling. Chi sogni di ospitare nelle stanze della signora Patrizia?

Emanuela Fanelli, Maccio Capatonda, Valerio Lundini, Chris Lilley. A loro lascerei la password dei social Sandretto. Anzi, faccio un appello al Torino Film Festival: fate visitare la Fondazione a Emanuela Fanelli quando farà la madrina del Festival. La loro comicità così intelligente riesce sempre a spiazzare, a far riflettere e a far morire dal ridere.
E, per un giorno, lascerei la password anche a Luca Morisi e a Khaby Lame per aumentare l’engagement.

Martine Syms, l’artista di Los Angeles che presenterà la sua personale alla Sandretto, nelle sue opere fa un blob della realtà mixando film, gif, meme, selfie, ciò che raccoglie negli ambienti digitali. Si è ispirata alla comunicazione e al lavoro del social media manager della Fondazione Sandretto, il maestro Yoda?

Ho riso molto. Comunque credo di no.

Tra le più famose opere della collezione di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo ci sono uno scoiattolo (di Maurizio Cattelan), un orso (di Paola Pivi) e la mostra di quest’estate a Guarene è stata dedicata a un gallo. Oltre questi, che tipo di animali vivono nell’art world?

Falchi, cani, volpi, lupi, qualche lumaca, qualche cigno e “gattini buongiornissimi”. Nessuno squalo o animale estinto.

 

Hai incontrato e lavorato con decine di artisti e curatori. Qual è stata la follia d’arte più esagerata che hai visto fare negli spazi della Fondazione tra Torino, Madrid, Guarene?

Adrian Villar Rojas, 2015. La ricordo ancora come la mostra migliore da quando lavoro alla FSRR. Ha riempito gli spazi espositivi con rocce provenienti da Istanbul. Ha tenuto le luci e il riscaldamento spenti in sala per tutta la durata della mostra (pieno inverno). Ogni giorno entravo in sala espositiva e pensavo WOW: un paesaggio lunare distopico post bomba atomica che neanche in The Road o in Mad Max. Davvero una mostra definitiva

Nel racconto dell’arte tu, Nicolas Ballario, Make Italian Art great Again, il commissario della bad public art theBonamist, usate la leggerezza. L’arte contemporanea è respingente?

L’arte contemporanea, secondo me, deve essere respingente. Non è il lavoro dell’artista far comprendere le sue opere. L’artista, come lo intendo io, deve cercare di spostare l’asticella sempre più in alto. E non parlo solo di arte figurativa. Prendi David Lynch: un visionario che ha intuito che da un orecchio mozzato divorato dalle formiche poteva creare un universo narrativo allucinato. O prendi Kid A dei Radiohead, un album “respingente” per chi li aveva conosciuti su MTV guardando il video di Karma Police. Ma tornando all’arte figurativa, spetta alle operatrici culturali, alle critiche d’arte, alle art sharers rendere meno respingente il lavoro delle artiste. Il Dipartimento educativo e le mediatrici culturali della FSRR, per esempio, hanno un ruolo decisivo nella divulgazione dell’arte contemporanea. 
Focalizziamoci per un attimo sul pubblico che entra in museo di arte contemporanea: c’è chi sarà interessato all’opera e andrà a fare ricerca sui temi affrontati dall’artista, c’è chi posterà la foto su Instagram con l’hashtag #picoftheday, c’è chi urlerà “potevo farlo anch’io!”. Ma l’importante, per quanto mi riguarda, è fornire tutti gli strumenti utili alla comprensione o all’analisi di un’opera. Se in un museo di arte contemporanea c’è uno spillo attaccato al muro con la didascalia “nome artista, data di nascita, senza titolo, anno di produzione dell’opera” e nessuna informazione aggiuntiva, c’è un errore da parte dell’istituzione. Quello è respingente, non l’azione dell’artista che ha attaccato uno spillo al muro. Non si può costringere ad apprezzare l’arte contemporanea, a leggere DeLillo o Foster Wallace, ad ascoltare i Fontaines D.C..

Tutto sta nella bravura dell’istituzione ad essere meno respingente e nella sensibilità della persona a cui cerchi di promuovere una mostra o un evento. Se questa persona preferisce mettersi in coda per farsi un selfie con un personaggio di Uomini e Donne o seguire la signora “noncenecoviddi” di Mondello su Instagram e non la Fondazione, un motivo ci sarà. Il mio lavoro è anche quello di cercare di intercettare quel pubblico che non è minimamente interessato all’arte contemporanea. Il mio lavoro consiste nel sapere che, pur non ascoltandoli, The Weeknd e Ariana Grande interpretano un brano che forse diventerà un classico tra 20 anni, che The end of the Fu**ing world analizza la società contemporanea meglio di un saggio di un docente di sociologia. Io devo “immergermi” in contesti e scenari che sono (all’apparenza) distanti dalla realtà in cui lavoro per trovare un link con le nostre attività. Solo in questo modo, forse, un’istituzione culturale non verrà vista come una cattedrale nel deserto o come uno una navicella spaziale atterrata nel Nevada. Sono sempre più convinto che un’istituzione culturale debba vedere in Netflix un suo “competitor”. Io, ogni giorno, cerco di trasmettere il messaggio che se vuoi avere una visione a 360° del contemporaneo o del futuro prossimo, devi certamente guardare Black Mirror, ma non puoi perderti la prospettiva dell’arte figurativa, in grado di entrare, per esempio, nel dibattito della restituzione dei beni culturali o dell’inclusività. Ma ribadisco che se un meme sui social attira l’attenzione del pubblico che non frequenta i musei di arte contemporanea e questo stesso pubblico visita una nostra mostra, il lavoro fondamentale sarà quello delle nostre super mediatrici culturali.

 

Da anni prendi in giro le persone annunciando una nuova edizione del Traffic festival a Torino. Qual è il concerto che non dimenticherai mai?

Per quanto riguarda il Traffic direi The Strokes e i Sex PistolsAltri concerti “definitivi”: Radiohead a Roma, settembre 2012, Pearl Jam, Milano 2014. Voglio tanto bene a Eddie Vedder.

Il tuo ufficio è in Borgo San Paolo, dove la Fondazione Sandretto e la Fondazione Merz hanno convertito tracce di passato industriale e operaio del quartiere. Cosa manca oggi a questa zona e cosa la rende affascinante?

La rende affascinante la vicinanza con le OGR e la GAM. Manca una comunicazione sul distretto dell’arte contemporanea a Torino. La FSRR, la FM, la GAM e le OGR formano un distretto del contemporaneo, ma in città pare non si sappia. A New York o a Londra ci sarebbero le spille e i magneti da attaccare al frigo.

Quale grande film della storia del cinema avrebbe potuto essere ambientato a Borgo San Paolo?

Wendy e Lucy (nel giardino della FSRR), Birdman: un unico piano sequenza di una visitatrice, schiava della celebrità, che gira tutti i musei del distretto di cui sopra. Arriva alla Sandretto e una nostra mediatrice culturale le sussurra che “la celebrità è la cugina zoccola del prestigio”. 

Sei con ospiti di Patrizia Sandretto, curatori, artisti, giornalisti e dovete restare a Borgo San Paolo. Dove li porti a mangiare? Dove andate a bere? Dove bisogna portarli per farli divertire?

Spazio7, la caffetteria e il ristorante stellato della FSRR. Per divertirsi suggerisco di seguire Instagram della FSRR.

Sei un grandissimo cinefilo. Cosa bisogna andare a vedere al cinema ora che si deve tornare al cinema?

Dune.