Nel 2004, mentre il vinile registrava il picco più basso di vendite della sua storia (lo 0,1% sul totale della musica), in un piccolo garage sui monti tra Sasso Marconi e Pianoro – a Badolo – nasceva il primo laboratorio artigianale di vinili d’Italia: il Vinilificio. Ecco, ora provate a catapultarvi in quel contesto e siate sinceri/e: come lo avreste giudicato uno che in quel momento, sperso in una frazione montana, intraprendeva solitario la sua battaglia contro i mulini a vento del radioso futuro digitale e dello streaming? Il pazzo visionario in questione si chiama Cristian Adamo – noto anche per essere membro del collettivo Original Cultures e tra i fondatori di NEU Radio – ed era (ed è tuttora) armato da una convinzione fortissima: che il vinile, nonostante tutto, non morirà mai.
Oggi Vinilificio non è più sull’appennino, ma in pieno centro a Bologna, in Via Santa Margherita 14/A.
Ecco cosa ci ha raccontato Cristian.
Partiamo dal principio.
Nel corso degli anni 90 lavoravo come promoter, soprattutto nell’ambito dell’hip hop, quindi anche con i turntablist, gente che scratchava. Così tra la fine degli anni 90 e inizi duemila (quindi prima che il digitale esplodesse) ho cominciato a sondare l’esistenza di qualche tecnologia che permettesse di fare vinili in singola copia. C’erano delle cose, ma erano estremamente costose.
Poi fortunatamente nel 2004 conobbi un signore tedesco che realizzava un macchinario che permetteva di incidere dei dischi vergini di plastica. Lo incontrai e alla fine di quell’anno entrai in possesso di quel primo macchinario.
A Badolo...
Sì, vivevo lì, tra Sasso Marconi e Pianoro, quasi montagna diciamo. Sono partito in un garage condiviso con un mio amico che riparava e restaurava vespe. Lui smanettava tra grasso e arnesi, io stampavo vinili. Una situazione abbastanza assurda, se ci ripenso ora.
Quindi all'inizio stampavi vinili per i dj con cui lavoravi?
Esattamente. Non era nemmeno un vero lavoro, ma una cosa che mi piaceva fare e con cui arrotondavo. Poi si è sparsa un po’ la voce e pian piano la cosa è cresciuta, soprattutto quando ho iniziato anche a stampare sia le label (le etichette tonde che sono al centro del disco) sia le copertine, dando ai clienti l’opportunità di mandarmi la creatività. E questa cosa, nella mia nicchia, credo di essere stato il primo in assoluto ad averla fatta, anche perché quello dei dubplate era fondamentalmente un mondo di white label, non esisteva altro.
Certo nel 2004 il vinile non se la passava affatto bene. Perché l'hai fatto?
In quell’anno il vinile era praticamente dato per morto. In Italia tutte le stamperie stavano chiudendo. Vista così potrebbe sembrare una cosa folle, ma io ho sempre pensato che se parliamo di musica, fondamentalmente, parliamo di vinile. Per me il vinile è il rappresentante massimo della musica. Può avere alti e bassi, ma non credo morirà mai. E, infatti, dal 2005, grazie ad alcune piccole aziende che ci hanno creduto (Vinilificio compreso) e ad alcune iniziative tipo il Record Store Day, il mercato è sempre stato in crescita fino ai picchi degli ultimi anni.
Questa crescita che effetti ha avuto sul tuo lavoro?
Sai, oggi può capitare di trovare vinili addirittura da Lidl o Mediaworld. Non è più un mercato per semplici appassionati o addetti ai lavori. Quindi la richiesta è salita considerevolmente. Il problema è che nel mondo dominato da Amazon tutti pretendono velocità e vogliono avere il prodotto a casa il giorno dopo. Ma noi per fare un disco ci mettiamo diverse ore…
Da un garage sui monti a una piccola fabbrica in centro a Bologna.
La cosa che non ho mai voluto fare nella vita è stare in fabbrica, né come operaio né dall’altra parte. Mi piace più chiamarlo un laboratorio. Ci sentiamo un po’ degli artigiani, perché i dischi li facciamo manualmente uno per uno.
Quante macchine avete oggi e quanti siete a lavorare?
Nel 2016 mi sono trasferito in via Santa Margherita e adesso siamo in tre, una cosa abbastanza incredibile, impensabile fino a qualche anno fa. Nel laboratorio abbiamo quattro macchine che incidono dischi, la prima presa appunto nel 2005 e le altre tre tra il 2018 e oggi: sono macchine che incidono singole copie e piccole tirature fino a un massimo di 30/50 pezzi.
Dal 2008, inoltre, gestiamo il mercato italiano di una stamperia tedesca di Leipzig, Rand Muzik, per la quale curiamo il mercato italiano. Siamo tipo il loro ufficio nazionale. I numeri in quel caso sono più importanti, ma rimaniamo sempre nell’ambito del mercato indipendente che è quello che ci interessa maggiormente.
E quanto costa un vinile?
Quello che costa è soprattutto il tempo. Per incidere un disco ci vuole il tempo della durata del disco stesso e fino ad altri 30 minuti circa per fare il setup, il master ecc. Il costo perciò può variare tra i 20 e i 120 euro circa. Concorrono a questo anche altre cose, tipo le label e le copertine o il colore del vinile stesso e altro.
Con chi ti è capitato di lavorare?
Ho fatto molti lavori nel mondo dell’arte contemporanea, una nicchia molto interessante: Motus, Ragnar Kjartanson, Societas Raffaello Sanzio, Chiara Fumai, sono solo alcuni nomi. Ho fatto i dischi per la trasmissione “I miei vinili” prima su Rai 3 poi su Sky. Poi anche per Jeep o Lamborghini, ma soprattutto nell’underground.
Cosa ne pensi dell'euforia "vinilica" degli ultimi anni?
Quando ci sono dei picchi siamo tutti contenti e felici che ci sia lavoro, ma c’è il rovescio della medaglia che riguarda il mero consumo. La cosa più bella del disco è sempre stata – a differenza del mondo digitale e immateriale – il valore della musica rappresentato non solo dal costo, ma anche dal gesto stesso dell’ascolto.
L’euforia un po’ esagerata degli ultimi anni ha, invece, esasperato il consumismo, con conseguenze negative anche sulla qualità dei vinili stessi. Non è raro che ci siano persone che comprano i dischi e non hanno nemmeno il giradischi a casa. E questo è un classico meccanismo del capitalismo che ha creato un desiderio dell’oggetto che si esaurisce in fretta. Io spero che si torni ad avere un po’ di attenzione anche sulla musica.
Mi parlavi anche della lentezza del vostro lavoro che cozza con la velocità del mondo fuori...
Come ti dicevo, per fare un disco noi ci mettiamo diverse ore. E la verità è che è proprio la lentezza a fare un buon disco. Comunque, anche se tutto va nella direzione contraria, io ci provo: voglio essere un bastione della lentezza.
Richieste assurde?
Richieste assurde tante, ma c’è una storiella che ancora mi fa ridere. Una decina di anni fa, quando avevo lo studio in casa, mi suona il telefono e dall’altra parte uno mi fa: “Buongiorno sono Cremonini, Cesare, il cantante”. Cremonini si voleva fare dei bootleg dei suoi dischi. E io lì a spiegargli che che forse, avendo un contratto con Universal, non era il caso di farsi un disco per i fatti propri.