In occasione dei 30 anni del Link Project, ripubblichiamo alcuni approfondimenti usciti su Notte Italiana, progetto di ZERO realizzato in occasione della 14esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia nel 2014 che ha ripercorso la storia del clubbing italiano e raccontato com’è cambiato il mondo della notte.
Daniele Gasparinetti schivo, ambizioso, curioso, tenace, dal linguaggio forbito e ottimo compagno di bevute. È lui la persona che, insieme a Silvia Fanti e ad altri collettivi, ha sviluppato fin dall’inizio tutte le attività che si sono svolte al Link Project di via Fioravanti 14. Dalle occupazioni al cinema sperimentale, passando per il cyber-punk e i lavori di bonifica degli spazi, lui c’era sempre. Luca Vitone, un suo caro amico quando l’abbiamo intervistato ci ha detto che sulla porta del primo ufficio del Link qualcuno scrisse “Daniele è Dio”. A Daniele abbiamo chiesto di raccontarci com’è nato il Link Project.
Com’è nato il Link? Quali sono le esperienze che ti hanno portato a fondarlo?
Daniele Gasparinetti: Il Link nasce dalla storia delle occupazioni degli anni 80 a Bologna. In particolare è nato dalla confluenza di due nuclei di esperienze che erano in qualche modo intrecciate. Semplifico molto: il movimento punk e i collettivi universitari, in particolare quelli del Dams. C’era una costellazione di persone e gruppi, con singoli che passavano da una situazione all’altra, in uno scenario che era molto minoritario, sparuto e, nella mia memoria, anche un po’ sgangherato. All’inizio tutto si muoveva intorno ad alcune case occupate e ad abitazioni collettive, quelle dove si riusciva a fare applicare l’equo canone, fintanto che è esistito, grazie ad avvocati militanti. Poi sono iniziate le occupazioni universitarie e poi, tra l’88 e il ’90, l’occupazione dell’Isola nel Kantiere. Il background è stato un po’ questo: collettivi e gruppi informali, situazioni dove c’era una frequentazione mista tra studenti e altre persone che l’Università neanche la frequentavano, ma condividevano certi tratti sub-culturali molto vari. Ci son da dire alcune cose sul “clima culturale” di quegli anni.
C’era una forte tensione a fare delle cose, un insieme di bisogni che erano stilistico/esistenziali e non saprei come altro definirli. Una mescolanza tra stile di vita, modi di vestire o di mal vestire, di atteggiarsi, di ascoltare e fare musica, di accettare o rigettare le regole o di pensare la politica e il rifiuto della politica tradizionalmente intesa. Non si trattava tanto di ribellismo quanto di un modo di costruire un proprio codice d’esistenza in mezzo ad una società percepita come cumulo di macerie e menzogna. Perché tra gli altri, in quegli anni, l’immaginario che girava era anche un po’ quello di Mad Max, che faceva come da contraltare allo sfavillio dei party alla De Michelis e alla Milano da Bere. Erano gli anni 80.
[…]il Link nasce in parte da un tentativo di recupero del dialogo, tra occupanti e amministrazione pubblica. Un processo per niente lineare.
Mad Max quindi, ma anche Peter Jackson che negli anni 80 girava gore movies o Harry Pioggia di Sangue… Erano tutti riferimenti di quel giro; altro che futuro, “il benessere che ci state promettendo è una presa per il culo… non è vero niente”. Un rifiuto intuitivo delle promesse di partecipazione alla ricchezza della classe media. E su questo si innesta una interpretazione marxista, con qualche legame con la storia bolognese del decennio precedente che viveva nelle aule, le autogestioni e le occupazioni universitarie, con tutte le derivazioni deleuziane, situazioniste e decostruzioniste. Ecco, prima del Link queste costellazioni di persone si intrecciano in vario modo. All’Isola nel Kantiere, sicuramente, o nella prima grande fabbrica occupata, che stava dietro alla stazione centrale (durata poco in effetti) o nella sede di comunicazione del Dams di via Guerrazzi che sarà autogestita dopo il movimento della Pantera per tre anni.
Poi due fenomeni relativamente nuovi: l’Industrial e il Cyberpunk. Io ero molto affascinato dal primo: c’era qualcosa di sublime e orribile che caratterizzava la cultura industriale. Era un fenomeno che proveniva principalmente dall’Inghilterra thatcheriana e, con altre sfumature, dagli Usa di Reagan. Entrambi hanno avviato il processo di de-industrializzazione dei loro paesi, che l’Industrial ha espresso a suo modo. A cavallo dei 90 appare anche quella meteora che fu il Cyberpunk. Ricordo che ci fu un convegno, molto frequentato, ad Amsterdam nell’89 dove noi bolognesi andammo in molti. Si chiamava Europe Against Current.
In quell’occasione si riunirono hacking clubbers e media activist di tutto l’occidente e l’oggetto di discussione era la rete, che non aveva ancora il nome che le attribuiamo oggi. In quel contesto venne fuori questa corrente del Cyberpunk, con la coincidenza di Gomma e Bifo che la scoprono in contemporanea ed erano entrambe presenti a quel meeting. Il Cyberpunk introduceva un elemento nuovo rispetto al catastrofismo post-urbano, parlava di un futuro ipertecnologico, iperconnesso, che offriva una rappresentazione diversa delle società post-industriale. Dava, anche se nel campo non troppo serio della science fiction, una chiave immaginaria di quello che sarebbe potuto avvenire in futuro. Fu una grande fascinazione.
Contemporaneamente ci fu il movimento studentesco del ’90. Lì la rete l’abbiamo scoperta realmente. Si ricorda quel movimento come il movimento dei fax ma in realtà nelle sedi amministrative delle università occupate, quello che i net-activist scoprirono, furono i protocolli dell’http. I movimenti vengono usualmente un po’ assecondati a caldo ma poi, alla lunga, repressi e/o riassorbiti. Gli inizi degli anni 90 a Bologna, segnano un ciclo di sgomberi: via la Fabbrica di via Serlio, via l’Isola nel Kantiere e altre che non ricordo. Fu una specie di dramma collettivo per quella piccola scena. Resisteva l’autogestione del Dipartimento di Comunicazione di via Guerrazzi. Fu lì, (come ricorda Lucio Apolito), che ebbero luogo le infinite riunioni che precedettero la nascita del Link. Perché il Link nasce in parte da un tentativo di recupero del dialogo, tra occupanti e amministrazione pubblica. Un processo per niente lineare, sia da una parte che dall’altra, che ha visto la dura critica da parte di alcuni di noi che, in contrapposizione alla mediazione, hanno proseguito con l’occupazione del Livello 57, e dall’altra parte, si è assistito alla “marginalizzazione”, da parte dei suoi compagni di partito, del funzionario che aveva avviato la trattativa con noi.
A pensarci bene, la nascita del Link, non deriva tanto o non solo da quelle discussioni e da quella trattativa: deriva piuttosto da un’altra esperienza transitoria, le occupazioni di via del Pratello (ebbene sì, si era tornati a squottare le case) e da quella follia collettiva che fu la PrateTV, una sorta di Cyberpunk di quartiere, si incontrarono e lavorarono assieme un bel po’ di persone e gruppi. Molti di più di quelli che sospettavamo esistere, ma che evidentemente si erano formati all’ombra delle occupazioni. È quell’esperimento di united crews che ha dato vita al Link; di nuovo un raggruppamento improbabile di persone che non avevano nessuna voglia di starsene in una cameretta a farsi i fatti propri. E da lì, dal Pratello, il nome Link: ovvero connessione, ma anche acronimo potenziato di Isola nel Kantiere (Ink) e anche una sorta di premio consolatorio per i marxisti non pentiti, essendo parola che evoca il concetto di sinistra (linke) in tedesco. Era un nome che sembrava funzionare molto bene perché univa tutte queste cose. Chissà… Il nome era bello il logo forse un po’ meno, ma non era troppo importante: è stato disegnato in un minuto da Camacho su una tovaglietta di carta, nel bar di Lele, in Pratello, per poi essere digitalizzato da un grafico di passaggio.
Link Project apre come forzatura e per pura volontà di un manipolo di persone e piccoli collettivi, senza che lavori di ristrutturazione fossero stati realizzati dall’amministrazione, quindi fuori norma. C’era però uno straccio di documento firmato, il che significava che non c’era il rischio di essere buttati fuori da un giorno all’altro e siccome il documento parlava di 5 anni parlammo di Link Project come di un piano quinquennale.
Questi 5 anni erano il tempo per capire che tipo di esperimento ne sarebbe venuto fuori. Non lo sapevamo. Ciò che però parallelamente premeva, erano gli eventi contestuali, storici per così dire, che sono accaduti in quell’anno. Si tratta forse di una mia personale percezione, probabilmente è così, ma le due cose che hanno fatto precipitare la decisione di partire con quella esperienza sono state due: la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi e l’assedio di Sarajevo da parte delle truppe serbe. Se guardi nei programmi, nel primo anno di attività, abbiamo cercato di far vedere tutte le testimonianze che reporter indipendenti e documentaristi, riuscivano a portare fuori, a loro rischio, dalla capitale bosniaca.
Per me è stato uno shock, un orrore, che dal passato europeo tornava fuori come uno spettro, tutto sulla premessa di pace e razionalità nella quale eravamo stati cresciuti. In fondo, da questi due eventi storici contestuali, è venuto fuori l’altro tratto che contraddistingue nel mio ricordo quella esperienza: la sindrome da assedio. Non è che sia partito tutto assieme, come in un piano perfetto. Lo spazio era enorme e l’apertura d’uso di ogni area è stata progressiva, ci si è espansi piano piano, anche perché tutto era da bonificare.
Il primo nucleo di eventi è nato nella Sala Blu, il primo spazio che è stato infrastrutturato, dedicata al cinema e ai concerti. Ma da subito, cosa piuttosto anomala, l’imprimatur del Link come luogo pubblico è stato di natura “teatrale”: le arti sceniche hanno avuto un ruolo molto importante in tutta la storia del Link. A memoria, se non ricordo male, ma Silvia potrà correggermi, il primo evento realizzato nella Sala Blu è stata una produzione di Cesare Ronconi, regista di Cesena come la Societas Raffaello Sanzio, altra compagnia teatrale che amavamo molto. Fu quasi un rito e una iniziazione per molte persone che avrebbero poi continuato a lavorare lì dentro.
Parallelamente si insediano, nella palazzina che stava all’altro capo dell’edificio, i primi laboratori di produzione e gli spazi non utilizzati diventano il set di un film (“Road Jocke”) che non troverà mai distribuzione ma che ha vissuto lì dentro per dei mesi come una sorta di sogno produttivo.
Ciò che invece è partito da subito è stata la pianificazione di un programma bimestrale di attività, che veniva reso noto tramite uno stampato che era una via di mezzo tra un house-organ ed una fanzine, ben fatto e ben stampato. Ha accompagnato il progetto per tutti i suoi cinque anni di vita. Quel lavoro ha permesso di formalizzare un modello organizzativo, un primo organigramma, che prendeva ispirazione da una casa editrice, con i suoi nuclei redazionali e le sue collane, attività che correva in parallelo alla crescita di unità esecutive e unità produttive laboratoriali che avevano una propria autonomia, ma contribuivano in vario modo al ciclo di vita e produttivo del Link.
Abbiamo veramente fatto finta che problemi a monte non ve ne fossero, procedendo con una pianificazione progressiva. E progressivamente, su questo nucleo procedurale, si sono aggregate via via altre persone e piccole organizzazioni: lo spazio c’era.
Quindi alla prima redazione musicale, che aveva una provenienza colta, che attraversava le musiche popolari partendo dall’esperienza di Rock in Opposition, compaiono alcuni dei protagonisti che avrebbero seguito la rivoluzione elettronica degli anni 90. Una entrata un po’ sbrindellata, ma bene accetta. Mauro Borella, il famigerato “Belin”, per esempio, si muove in mezzo alle macerie dei sotterranei non ancora bonificati, e organizza i primi live acts quasi come dei rave illegali.
Ma tante cose sono procedute in parallelo. Con i Motus, su una loro intuizione, abbiamo sgombrato dagli scaffali e inaugurato quello che era il magazzino del complesso farmaceutico, lo spazio più ampio del complesso, dipingendo il pavimento di bianco per mettere in scena uno spettacolo che si chiamava “L’occhio belva”. Così nacque la Sala Bianca, che fu un investimento rigoroso e divenne lo spazio dove si è continuato a sviluppare il discorso sulle performing arts e dove sono stati realizzati alcuni tra gli eventi più strani e ambiziosi, dal concerto di Diamanda Galas, o quello di Terry Railey, a un solo di Sylvano Bussotti.
E poi, molto importante per la tessitura esistenziale del luogo, la creazione di spazi di servzio, sempre negli interrati: libreria, caffè, internet-point, il mitico ristorante di Nonna Piri, la mensa, finalmente. Quest’area rese il Link uno spazio di estremo agio rispetto ad altri posti autogestiti in Italia: c’era la vera macchina del caffè da bar, c’era il riscaldamento, c’erano delle sedute comode e c’era la luce per leggere (la corrente la rubacchiavamo un po’).
Abbiamo portato tutto noi, il poco che avevamo (molto materiale per il cinema, primariamente, 16 e 35mm, video-proiettori, monitor..) o lo abbiamo comprato strada facendo, per cui si facevano delle campagne di finanziamento per l’acquisto di attrezzature, con molta fatica ma ci si riusciva.
Come facevate ad avere un buon sound system?
D.G.: Partiti decisamente malino, ci pagavamo poco, e investivamo. C’era uno spirito che ti permetteva di dire “no gli incassi non me li mangio tutti!”. Erano sacrifici; il primo impianto serio fu un Turbosound da 40 milioni circa, ma ci son voluti tre anni, credo. Non so, a distanza di tempo se fosse veramente un buon impianto. Le tecnologie si sono parecchio evolute nel frattempo. Poi c’era tutta la cultura dei sound-system, che portava in giro o depositava lì impianti che non appartenevano a noi, ma alle “tribe” che li suonavano.
Come decidevate la programmazione?
D.G.: Come dicevo, la programmazione era organizzata come in una casa editrice: c’erano delle redazioni e un coordinamento editoriale, con una riunione periodica plenaria. L’assemblea vera e propria, era invece il momento dove si discutevano le questioni generali e si mediavano le eventuali problematiche, i conflitti e le tensioni, tra tutte le componenti, anche quelle non “redazionali” dello spazio. A livello di scelte tendevamo a fare tutto quello che le università italiane e le istituzioni non facevano: teatro non convenzionale, cinema sperimentale, videoarte, azionismo e performance, musica di ricerca, vecchie avanguardie e nuove correnti underground. Le cose che ci interessavano insomma e che se non le portavamo noi in Italia non si vedevano se non con estrema fatica.
Tendevamo ad una massima apertura possibile verso tutti i fenomeni dei quali venivamo a conoscenza. E fra questi succede che proprio a metà degli anni 90 c’è lo scoppio della rivoluzione elettronica. Noi ci siamo trovati in mezzo. Cosa stava succedendo? Tutte le sottoculture musicali, miriadi di correnti, con l’elettronica hanno provato a rimediarsi, letteralmente, a rifondarsi su di un nuovo media. Detroit per la techno, Londra per la jungle, il drum’n’bass e il dub sono state solo l’apice di quel fenomeno…. È arrivato tutto sincronicamente. La cultura industriale è confluita e ha fondato nuove estetiche: Pan Sonic ed Atari Teenage Riot, le metropoli meticce hanno mescolato le carte, le geografie, i ritmi e gli stili. Si sviluppano la techno minimale della Mille Plateaux e della mitteleuropa e si creano i nuovi paesaggi urbano-tropicali della Mo-Wax. Rinasce l’Afro-futurismo con personaggi come dj Spooky….È successo veramente di tutto, un paio di anni vertiginosi e non era merito di nessuno, tutto era nell’aria e tra di noi c’era Giorgio Manservigi che riusciva a parlarne con senno. Poi viene fuori anche il vintage, con un recupero di parte della tradizione leggera italiana, un anticipo della retromania, figlia della cut’n’mix culture di quegli anni. Suonano anche i Montefiori Cocktail, e Notte Vidal diventa lo snodo di questo strano divertimento, tutti i giovedì sera, in un momento che serviva per scaldare i motori della settimana tipo, con un clima frizzante ma rilassato.
Tutte le sottoculture musicali, miriadi di correnti, con l’elettronica hanno provato a rimediarsi, letteralmente, a rifondarsi su di un nuovo media. Detroit per la techno, Londra per la jungle, il drum’n’bass e il dub, sono state solo l’apice di quel fenomeno.
Eravamo contemporaneisti ma con anche dei riferimenti storici, c’era una sorta di asincronia in tutta quella macchina che in 5 anni ha maturato una consapevolezza e un’accuratezza nel funzionare che ha espresso dei picchi molto belli. C’erano delle serate che erano pazzesche. Quando erano aperti tutti gli spazi in ognuno potevi trovare una cosa, un fenomeno, attraversando un palinsesto di successioni inaspettabili. Mescolamenti strani di cose che tra loro non c’entravano, ma che lì dentro funzionavano. Forse il momento di massima improbabilità sono state le Incursioni organizzate con Luca Vitone e che hanno portato poi a due edizioni di Hops!, quando si è aggregato anche Andrea Lissoni. Quello che succedeva era una sorta di reinterpretazione della vita del luogo, della sua natura sociale, da parte di artisti che intervenivano modificando, in modo molto sperimentale, la funzione degli spazi con cose veramente bizzarre. Momenti assurdi, anche dal punto di vista produttivo. Follie e fallimenti, certo, che vanno a braccetto. Ci fu una prova generale di drammatizzazione dello spazio e dei suoi componenti, da parte di Giorgio Barberio Corsetti: fece il tentativo di investire tutto il Link e anche tutte le persone che vi lavoravano per la costruzione di uno spettacolo totale a partire dalla narrazione di un antico rituale induista: impresa impossibile. Cattelan il più alacre tra i pigri, se la voleva cavare mandandoci tutti a riposo per un weekend. E poi certo, ci sono state anche serate particolarmente sfortunate eh, c’erano giornate nere e serate nere.
Bologna e l’Italia come hanno risposto a questo tipo di proposta?
D.G.: All’inizio la nostra attività non era percepibile, è stata anche un filo impopolare. Poi è iniziata piano piano ad arrivare gente di ogni luogo e tipo, la più disparata. Ritorna qui la sindrome dell’assedio. A un certo punto non si capiva chi era l’assediante e chi l’assediato. L’immagine che ho avuto in mente, ad un certo punto, era quella di un grande accampamento di barabri, posto alle porte di una città. Tutti erano bene accolti, venissero da lontano o dall’interno delle mura: nessuno gli chiedeva le generalità.
A cosa v’ispiravate? Quali erano i vostri riferimenti?
D.G.: Ognuno aveva il suo, sicuramente ci ispiravano molte cose che succedevano nel nord Europa…
Come lavoravate alla rivista?
D.G.: In primis ci dovevano essere gli eventi, gli accadimenti e, chi li proponeva, i componenti delle redazioni, produceva i materiali utili per la comunicazione e per la realizzazione della rivista, passandoli al laboratorio di grafica, la Loew, un team eccellente, a un certo punto. Era un magazine dove si spiegavano e raccontavano delle cose, con alcuni approfondimenti teorici, identificavamo dei reprints o pubblicavamo testi inediti che affrontavano aspetti di retroscena che potevano servire al lettore per andare più dentro ai fenomeni; cercavamo anche noi di capirli. La presentazione degli artisti era divulgativa, gli approfondimenti erano più scientifici, senza fare dell’accademismo dal quale ci eravamo allontanati parecchio.
Raccontaci come si è evoluto il Link.
D.G.: Direi che si è trattato di un processo di saturazione. A un certo punto gli spazi erano saturi, pieni da tutti i punti di vista. Si è raggiunto un punto di evoluzione dove si è stati in grado di poter fare alcune scelte, che è stato il punto di equilibrio. Il punto di saturazione, è stato raggiunto, la uso come una sorta di metafora, con la bonifica dell’ultimo spazio insalubre. Era un buco nero da dove usciva anche l’acqua, quando cadevano piogge copiose, perché era al di sotto di una falda acquifera. Lì investimmo una cifra per noi significativa facendolo ristrutturare da Flavio Favelli che pavimentò la sala con delle lastre di vetro bianco riciclate; poi montammo un sistema audio dolby-surround con un buon video-proiettore a tre tubi. era la Schwarz Raum, un’idea di Lucio Apolito; lì facevamo delle proiezioni nootropiche (CNN), nelle nottate più mefitiche, curate un po’ dall’Opificio Ciclope e un po’ dalla redazione Cinema e video. È stata la celebrazione dell’arte come spreco, forse: investire simbolicamente il surplus in un buco nero..
È un punto che coincide anche con la saturazione dell’immaginario a livello mondiale, siamo nel 1999, credo: da un lato i fenomeni di musica elettronica si normalizzano e non hanno più quell’impatto rivelatorio, dall’altro lato esce una nuova onda visiva corrispondente con la digitalizzazione dell’immagine (da lì nascerà poi Netmage); infine il web: esplode la grande bolla del 2000 che falcidia una generazione. Qui dovremmo parlare degli anni zero. Ma nella mia esperienza ho la sensazione che i cosiddetti decenni, quello del 90 e quello del 2000 non coincidano, come sapore fenomenico, ma si sfasino tra un 1995 e un 2005.
In quel “decennio” sfasato si è consumata la trasformazione, o faremmo meglio a chiamarla trasmigrazione. Eravamo partiti come una certa unione di piccoli soviet (passatemi il termine, in senso letterale, in russo significa “consiglio”) che ha gentilmente occupato una “fabbrica” vuota, avviando uno strano esperimento di organizzazione della produzione. Avevamo bisogno di stare insieme per procurarci dei mezzi di produzione che all’epoca erano carissimi se non proibitivi. Ora i mezzi sono alla portata di tutti, siamo nell’era delle App. Ormai ognuno ha la sua unità di lavoro a casa – o addirittura in tasca – e non c’è più l’esigenza di stare insieme per produrre. Parallelamente, sempre nello stesso arco di tempo, si è creata una sorta di istituzionalizzazione dei processi culturali; è un fenomeno più ampio e profondo di quanto possa apparire a prima vista. In Italia nascono i vari Macro, Maxxi, Madre… quello che noi facevamo negli anni 90 non lo faceva nessuna istituzione italiana, ma alla svolta degli anni Zero, piano piano, incominciano a nascere questi spazi, si espande la figura del curatore, proliferano le residenze e le borse di studio e gli artisti stessi passano molta parte del loro tempo a compilare applications. Questa sistematizzazione, non dico che sia stata un effetto derivato dal nostro lavoro, penso però che sicuramente il Link in Italia abbia avuto un ruolo formativo per tutta una generazione, perché l’ha esposta a determinati tipi di fenomeni estetici. Una domanda si è iniziata a creare a partire da determinati stimoli. Il processo di istituzionalizzazione si sviluppa anche per cercare di dare delle risposte a questa domanda, o per cercare di cogliere questa opportunità.
Come vi rapportavate con le istituzioni e la burocrazia?
D.G.: Tra gli amministratori e i politici vi erano posizioni diverse, credo. Non c’era una contrapposizione tra blocchi, c’erano piuttosto delle persone, alcune con un certo retaggio, che potevano guardare alla nostra esperienza con curiosità; altri che hanno tollerato – presumo – qualcosa che, pur non essendo uno spazio occupato, non aveva, giocoforza direi, i crismi di una istituzione per bene. Burocrazia, il meno possibile. Sarebbe potuto crearsi un percorso possibile di istituzionalizzazione. Aveva iniziato a provarci Roberto Grandi, docente di comunicazione di massa e allora Assessore alla Cultura: era uno di quegli intellettuali curiosi, ma il processo era lungo, ed è stato di fatto interrotto da un cambio di giunta, il “crollo del muro di Bologna”, come lo ha chiamato qualcuno. Sarebbe servito un grande sforzo, da parte di tutti. Non è che la giunta successiva, di “destra”, si sia poi rivelata ostile. Del resto i loro figli erano in parte cresciuti anche lì dentro e mi immagino qualche buffa discussione familiare. Ma lo slancio sarebbe dovuto essere molto serio, anche dal punto di vista finanziario. E invece il piano era quello di abbattere quell’edificio e trasferire tutto in un’altra area, in mezzo al nulla.
Come si rapportavano gli altri centri sociali e le altre realtà?
D.G.: All’inizio ci guardavano male, avevamo infranto due tabù: il primo sul trattare con le istituzioni, l’altro sul provare ad introdurre delle forme di auto-reddito. Non abbiamo mai contestato le loro ragioni, abbiamo provato a sperimentare un altro percorso. Poi è successo qualcosa; nascono nuove occupazioni, come a dimostrazione che una strada nuova non preclude il percorso delle precedenti. Nasce il TPO, e anche con il Livello 57 è iniziato un coordinamento su alcuni temi. Primo Moroni aveva capito cosa stavamo facendo, aveva iniziato ad introdurre alcuni elementi nel dibattito nazionale. Era un intellettuale stimato in ambienti molto diversi. Purtroppo anche lui è venuto a mancare prematuramente.
A che stadio pensi che siano tutte le sottoculture che hanno portato alla nascita del Link Project?
D.G.: Non saprei dirti, il tentativo di rimediazione di tutta una serie di certe sottoculture come sia finita. Quella è un’analisi tutta da affrontare, nel senso che per esempio io oggi come oggi, penso che quella scena elettronica sia morta.