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Looking for Palestine: la mostra di Forensic Architecture nel Sottospazio di Palazzo Bentivoglio

Scritto da Salvatore Papa il 22 dicembre 2025

Per la serie “non è iniziato il 7 ottobre”, fino all’11 gennaio c’è tempo per visitare la mostra Looking for Palestine di Forensic Architecture, allestita nel Sottospazio di Palazzo Bentivoglio a Bologna (ingresso da via Mascarella 3), parte del programma della Biennale Foto/Industria.

Forensic Architecture è un centro studi con sede a Londra, fondato dall’architetto israeliano Eyal Weizmann. Attraverso strumenti architettonici e tecnologici e la produzione di mappe, video, interviste ed evidenze spaziali, il gruppo indaga violazioni dei diritti umani e crimini di Stato, fornendo materiali cruciali per i tribunali e le commissioni internazionali.

Looking for Palestine, a cura di Elizabeth Breiner e Shourideh Molavi con Francesco Zanot, ricostruisce il continuum storico che lega il genocidio in corso a Gaza alla Nakba, l’espulsione di massa dei palestinesi dai loro villaggi e i massacri perpetrati dalle forze sioniste tra il 1947 e il 1949. Grazie a materiali d’archivio e testimonianze dei sopravvissuti, la mostra rende palesi le corrispondenze tra le violenze di allora e quelle di oggi, un ciclo senza fine che la propaganda sionista e mediatica continua a occultare.

Diventa così possibile vedere, in modo diretto e documentato, come i governi israeliani abbiano adottato le stesse modalità sin dal 1947: dopo aver decimato e sfollato la popolazione, interi villaggi venivano rasi al suolo per cancellarne ogni traccia e memoria e lasciare spazio a colonie e kibbutz poi sviluppatisi come vere e proprie fortezze militari.

Alcune immagini aeree dal 1945 al 2024 rivelano, in particolare, la sistematica cancellazione del villaggio di al-Dawayima fino alla trasformazione in colonia.
al-Dawayima fu una delle tante comunità prese di mira nel 1948 nell’ambito di una campagna militare avviata dal neonato Stato di Israele, volta all’espropriazione e alla pulizia etnica dei palestinesi.
Il massacro fu raccontato da un soldato israeliano di nome S. Kaplan tramite una lettera al direttore del quotidiano israeliano Al-Hamishmar: «Non ci fu battaglia né resistenza…I primi soldati [a entrare nel villaggio] uccisero da 80 a 100 arabi [uomini], donne e bambini. Uccisero i bambini fracassando loro il cranio con dei bastoni. Non c’era una casa senza i suoi morti. Gli uomini e le donne arabi rimasti nel villaggio furono rinchiusi in case senza cibo né acqua. Un soldato si vantò di aver violentato una donna araba e poi di averle sparato. […] comandanti colti ed educati… si trasformarono in vili assassini, e non nel calore e nella passione della battaglia, ma in un sistema di espulsione e distruzione. Meno arabi rimarranno, meglio sarà.»

Un altro studio mette, poi, in luce la violenza psicologica esercitata con la diffusione via cielo di migliaia di volantini d’“evacuazione”, pieni di informazioni false trasformatesi in trappole sotto le sembianze di misure umanitarie.

I resoconti degli attacchi agli ospedali usati come rifugi mostrano infine l’estrema libertà d’azione con cui si sondano i limiti dell’impunità.

I lavori proposti non si limitano, comunque, a documentare i cicli di violenza diretta e indiretta, ma propongono strategie di resistenza per combattere la guerra di cancellazione tuttora condotta da Israele e la propaganda che ci inchioda in un eterno presente, dove contesto storico, vere vittime e veri responsabili scompaiono magicamente.

ORARI
MARTEDÌ–DOMENICA, ORE 10–19