Non sempre è ben chiaro cosa accade alle città. D’un tratto ci si rende che conto che qualcosa è cambiato, e subito ci si abitua alle sue variazioni, poiché per certi aspetti ogni cambiamento urbano è già prefigurato da alcuni caratteri della città, che sono inclinazioni o ambiti di possibilità che legano il passato e il presente di ogni città alle sue possibilità future. Certo, capita molto spesso che i luoghi urbani si possono riassumere in qualche crisma, qualche patema, qualche maniera (o peggio: modello) secondo i quali una città s’immagina e si orienta. Sono “Milano non si ferma”, “Bologna rossa” o “dei portici”, “Vedi Napoli e puoi muori”, ma pure la “Torino esoterica”. Con questi crismi, non soltanto una città si immagina, ma è la città che immagina e orienta noi che la viviamo. D’altronde questa “sostanza urbana” è quel che di più prossimo abbiamo al mondo: un ritratto d’umanità, disegnato più volte su sfondi diversi. Come non cambiare al loro cambiamento?
Ora, data la velocità odierna con cui diverse città stanno cambiando, che sia in vista di grandi eventi o in prospettiva strategica (sia urbanistica, ecologica, di primati di vario titolo) è sempre più difficile cogliere per tempo le trasformazioni. Tanto che si rischia da un anno all’altro di trovarsi in quartieri diversi, in vie ristrutturate, senza aver mai colto per bene il portato e l’effetto di tali trasformazioni.
Si potrebbe dunque pensare che “immaginare le città” sia una prerogativa di architetti e urbanisti, ma è facile riscontrare una certa tradizione letteraria che ha come suo orizzonte proprio la volontà di capire e raccontare questi “caratteri” urbani. Il Novecento ne è pieno, e fu molto probabilmente una necessità d’assennatezza emersa in bilanciamento al grande sviluppo urbano e industriale della “seconda età delle macchina”, come titolava il grande libro di architettura di Reyner Banham. Solo per fare qualche esempio, vale a dire qualche coordinata, ci sono i ben noti Passagen-Werk e le Immagini di città di Walter Benjamin, ci sono le analisi dell’immaginario urbano della Los Angeles ubiqua di Mike Davis, c’è il modello comunicazionale di Las Vegas di Venturi e Brown, ci sono le psicogeografie dei situazionisti e le Ritmanalisi di Lefebvre, fino ai più recenti Testi sulla non più città di Koolhaas… insomma, una sfilza interminabile che, per chi volesse, racconta minuziosamente, tanto con stupefatto allarme quanto con genuino fascino, le zone in ombra delle città.
Un public program che si propone di raccontare la città di Torino del futuro prossimo, attraverso due aree che proprio quest’anno entrano nel vivo dei cantieri: il Parco del Valentino e la Cavallerizza Reale.
Ci sembra che un simile intento, di raccontare, prefigurare, vada ascritto anche al programma culturale Turning Point. Rivelare il futuro al Torino Urban Lab, che si propone di raccontare al pubblico e ai cittadini fino a maggio 2025 due progetti che trasformeranno la città di Torino nel futuro prossimo, e i cui cantieri entreranno proprio quest’anno nel vivo: il parco del Valentino e la Cavallerizza Reale. Parliamo di due simboli, come ben saprete, imprescindibili, della città sabauda: da un lato la Cavallerizza, animo barocco e artistico e patrimonio dell’Unesco, nonché ex-spazio occupato e di una certa rilevanza fino a cinque anni fa, e dall’altro il Valentino, che è a tutti gli effetti un nodo strategico attorno al quale Torino tutta potrebbe svoltare, per dimensioni, fascino e possibilità. Quel che accadrà al Valentino sarà di contenere una nuova biblioteca civica all’interno del padiglione Nervi, di recuperare il Teatro Nuovo, ovviamente una risistemazione del parco, e anche il ripristino della navigazione sul Po. Alla Cavallerizza saranno invece prettamente istituzioni, fondazioni e spazi culturali e di ricerca, in breve, un polo culturale, tra arti, musica ed educazione.
Insomma, i due interventi che mostra e public program si propongono di raccontare sono grandi progetti di riqualificazione che interessano largamente l’insieme della città e le sue future direttrici. Così, già da titolo del programma Turning Point. Rivelare il futuro, si annusa il rilievo che si da a tali operazioni, così come l’importanza di renderle cognitivamente tangibili.
Abituare l’occhio, abituare lo sguardo, saper quello che avverrà – o meglio: quel che sarà –, insomma: farsi trovare pronti per il futuro della città.
Quel che troverete nella mostra sono perciò tutta una serie di strumenti visivi, tra ortofoto, cartografie, mappe di dati e di flussi sulla città di Torino, bookshop dedicati, audio e testi di diversa natura. Si cerca di cogliere quello che si dice essere il battito di una città, i suoi movimenti interni, quelle che insomma sono le strutture e le dinamiche che la rendono così come la conosciamo. Una radiografia prima dell’intervento. Diciamo che innanzitutto è raro trovare una mostra tutta dedicata a interventi di questo genere. Solitamente avvengono, senza troppi se e troppi ma, senza programmi pubblici, senza talk, senza esposizioni. Se da un lato qualcuno potrebbe certo sostenere l’intento apologetico e sensazionalista di questo programma, dall’altra parte si potrebbe pure riconoscere l’importanza di offrire, nel mentre della messa in opera dei cantieri, la possibilità di offrire strumenti per comprendere le variazioni che da qui ai prossimi anni troveremo. Abituare l’occhio, abituare lo sguardo, saper quello che avverrà – o meglio: quel che sarà –, insomma: farsi trovare pronti per il futuro della città.
Si torna, anche in questo caso, a interrogarsi sullo statuto dei luoghi. Da dove arrivano, cosa significano, chi ne informa i caratteri e i simboli, perché prima di tutto i luoghi vanno considerati come spazi collettivi, dove il senso e la frequentazione sono condivisi, così da esigere una storia da raccontare. Perciò non tanto il luogo come “portavoce del cambiamento” – quello lo fanno i progetti, che risvoltano e rigovernano spazi in continuità con le prospettive urbane e politiche – ma piuttosto come sedi privilegiate attraverso cui si dà un certo orientamento, un certo orizzonte possibile e plausibile, proprio perché condiviso e collettivo, di una città tutta. E questo a partire dalla considerazione che ogni luogo è la manifestazione di una o più inclinazioni, attitudini, presenti nel complesso della città, e che a essa si rivolgono, tanto in veste di causa quanto in quella di effetto, in un circolo di mutuo sostegno d’idee, prassi e attività. Siamo dunque i luoghi che abitiamo, ma vale anche il contrario: sono i luoghi che ci possiedono, e per questo occorre sempre trovare il modo di raccontarli, anche a costo di sporgere il naso nel futuro prossimo.