Alfredo Jaar torna a Milano, dieci anni dopo la grande mostra all’Hangar Bicocca, ospite degli spettacolari spazi della Galleria Lia Rumma. Artista unico e straordinario, Jaar non ha mai smesso di interrogarsi sul contesto sociale e politico, sulle immagini e sul loro ruolo nella società, realizzando lavori incredibilmente poetici e di impatto, anche grazie agli strumenti che gli ha fornito una formazione da architetto e filmaker. Nella sua carriera tra i tantissimi progetti ha partecipato tre volte alla Biennale veneziana, due a Documenta a Kassel, ha avuto avuto personali in musei quali il New Museum of Contemporary Art di New York, la Whitechapel di Londra, il Museum of Contemporary Art Chicago, lo Stedelijk Museum di Amsterdam e il Moderna Museet di Stoccolma e realizzato più di sessanta progetti di arte pubblica, da Times Square a New York fino al lavoro che sarà realizzato a Milano per il parco d’arte contemporanea ArtLine, nell’area CityLife. Noi lo abbiamo incontrato per parlare della mostra in corso, ma anche della sua “invasione” delle strade romane in occasione della mostra La Strada al MAXXI, dell’Italia di oggi, di come le sue immagini sono finite sulle copertine dei dischi di suo figlio musicista Nicolas Jaar e ovviamente della sua pratica artistica.
Vorrei iniziare parlando della mostra in corso, Lament of the images, presso la sede milanese della Galleria Lia Rumma, dalla sua complessità articolata su tre piani e tre differenti spazi e lavori: uno realizzato appositamente, WHAT NEED IS THERE TO WEEP OVER PARTS OF LIFE? THE WHOLE OF IT CALLS FOR TEARS, Lament of the Images (2002) e Shadows (2014). Sono rimasto molto colpito da come tutto sembri così strettamente connesso nel tuo lavoro, e volevo chiederti come hai pensato e progettato una simile esposizione.
Lia ha aperto questa nuova sede della galleria qualche anno fa, nel 2011, e da subito ho iniziato a pensare a come realizzare una mostra in un luogo come questo, uno spazio straordinario e bellissimo, ma anche molto grande ed estremamente esigente. Tutto è a una scala abbastanza impressionante e richiede lavori che siano ad una scala adeguata, così ci ho pensato molto e fin dall’inizio non volevo cadere nella trappola di riempire questo spazio con tante cose. Non penso sia il mio modo di lavorare!
E non volevo neppure rimanere intrappolato nella monumentalità di questo luogo, nel dover fare cose grandi perché lo spazio è altrettanto grande: spesso questo è uno dei problemi con i giganteschi spazi per l’arte contemporanea, in cui sembra si debba occupare ogni singolo centimetro.
E dal punto di visto dei contenuti?
Non credo che l’arte riguardi il produrre cose, credo che l’arte riguardi le idee.
All’inizio ho pensato: realizzerò un progetto concettuale che vada in crescendo, da uno a tre seguendo i piani della galleria, e proporrò idee. Ovviamente poi le idee vanno manifestate in un modo o nell’altro, e ho utilizzato vocabolari differenti, ma in sostanza si tratta di un crescendo di idee.
C’è un ordine in questa mostra?
Ho scelto di iniziare dal piano terra con quello che è il mio umore, o meglio il mio umore in questi tempi bui in cui viviamo. Ho pensato di creare uno spazio di incertezza, dove ti senti perso e non sai dove sei. Questo è il motivo per cui ho pensato all’idea della nebbia: per invitare le persone a entrare in un luogo dove si sentano come mi sento io oggi nel mondo, perso.
Perché non penso che siamo mai stati in una situazione come quella attuale, così drammatica, che peggiora ogni giorno. Non avrei mai pensato che la mia generazione, che ha attraversato la dittatura militare in Cile, o il genocidio in Ruanda, la guerra in Iraq e tutte le tragedie degli ultimi cinquant’anni, sarebbe arrivata a un punto in cui dozzine di paesi in tutto il mondo vengono sedotti da fascismi, neo-fascismi o come li si voglia chiamare.
Qual era il tuo obiettivo?
Volevo poi ovviamente fare arte, e per me l’arte è l’equilibrio tra contenuti e poesia.
Queste cose sono molto importanti per me, non mi interesserebbe solo lanciare dei messaggi, ci devono essere entrambe queste componenti. Nell’installazione che ho realizzato per questa mostra a piano terra, WHAT NEED IS THERE TO WEEP OVER PARTS OF LIFE? THE WHOLE OF IT CALLS FOR TEARS, ho utilizzato una bellissima citazione di Seneca, che dà anche il titolo al lavoro, e parla di come dovremmo guardare la vita, la cosa più straordinaria che ci sia mai capitata, e di come non dovremmo perdere tempo con cose irrilevanti, concentrandoci piuttosto sulla totalità.
Questa frase può essere riferita a così tante cose che accadono oggi: i telefoni, i selfie, il rumore… Ho trovato questo statement magnifico, è stato nel mio archivio per tanto tempo e quindi ho pensato: adesso lo userò!
Anche il colore rosso del neon e della stanza che ho scelto, è il colore del sangue, dei conflitti, dei cartelli di stop. Ho pensato che con un neon rosso, la nebbia, luci rosse e filtri rossi sulle finestre potevamo avere quello spazio di incertezza che cercavo: come un acquario rosso dentro al quale invitavo le persone a nuotare.
Sono davvero soddisfatto del risultato.
Penso che sia molto potente, anche solo come primo impatto.
La galleria all’inizio non era convinta dalla nebbia, credevano non fosse necessaria, ma in realtà fa una grande differenza.
Puoi parlarci del rapporto tra questo spazio e l’installazione al piano superiore, Lament of the Images, che da il titolo alla mostra.
Questo è un lavoro che ho realizzato nel 2002 e al tempo già stavamo passando dalla fotografia analogica a quella digitale. Eravamo all’inizio delle sperimentazioni, di Photoshop, e il concetto di fake news e di manipolazione delle immagini iniziava ad emergere. Pensavo stessimo entrando in una situazione pericolosa e volevo commentarla in qualche modo.
È composto da un tavolo luminoso, che al tempo era ancora usato dai fotografi per guardare le immagini – luci, trasparenze, negativi… -, e da un altro tavolo identico, opposto e al di sopra di questo, che si muove. Non ci sono immagini, ma non è solo questo: quando il tavolo superiore sale la luce aumenta, una luce molto intensa e alla fine io posso vedere te, e tu puoi vedere me. Se ci sono persone in galleria, aspettano che il tavolo si alzi e quindi possono vedere le altre persone intorno a se, è un po’ come l’inizio della vita. Ci si guarda e ti trovi ad esclamare: “ah posso vederti, e tu puoi vedere me, e siamo esseri umani, con un naso, una bocca e tutto il resto”. È un modo per dire: parliamoci, riconsideriamo l’umano, riscopriamo l’umanità e il dialogo, senza interferenze e manipolazioni attraverso le parole, le immagini, le falsità.
Come lo definiresti?
È un lavoro molto fisico e al tempo stesso molto filosofico. Un saggio sulla rappresentazione.
E penso sia abbastanza magico, diverso a seconda del momento in cui lo si osserva: quando la luce è alta vedi le persone e quello che sta intorno a te, quando si abbassa vedi questa misteriosa luce, che viene dal tavolo mentre lo spazio intorno è buio, e grazie ai riflessi la linea al centro è scura.
è una bellissima esperienza fisica, ma è anche pieno di significati. Il tavolo bianco per me è poi una sorta di tabula rasa, uno spazio dove il visitatore proietta le proprie idee, pensieri, sentimenti, la propria costruzione del mondo.
A proposito di immagini, vorrei chiederti che ruolo ha l’archivio per te, e come lo utilizzi, sia come concetto ma anche come strumento e fonte per i tuoi lavori.
L’archivio per me è molto importante, e credo che negli ultimi vent’anni sia diventato sempre più importante. Ovviamente l’archivio è la memoria, e per un artista come me che è interessato al contesto, e risponde al contesto, è fondamentale, è il punto di partenza.
Il mio motto è sempre stato lo stesso: “non posso agire nel mondo senza capire il mondo”. E come potrei capire il mondo senza la memoria e senza l’archivio?
Molti dei miei progetti richiedono questo sguardo verso il passato, per comprendere il presente e immaginare un futuro possibile. Per esempio ho usato molti materiali d’archivio nel mio progetto dedicato al genocidio in Rwanda.
E in questo progetto invece?
Lament of the Images è più sull’assenza di memoria, non c’è nulla dell’archivio qui. Cercavo piuttosto una tabula rasa per poter arrivare a dire “let’s get real”!
Anche se è un lavoro del 2002, un’edizione di tre di cui uno è stato acquisito dalla Tate, ho sempre pensato che un giorno avrei voluto esporlo ancora, e adesso con Trump e tutte le notizie intorno a noi, ho pensato fosse il momento di recuperarlo.
Hai mai provato qualche social network? Mi interessa molto come l’immagine si trasformi radicalmente attraverso questi strumenti, e penso sia strettamente collegato al concetto di tabula rasa.
No, ho resistito. Non sono né su Twitter né su Instagram, la mia vita è già incredibilmente folle così: viaggio circa 250 giorni ogni anno, ho tantissimi progetti, lo studio, le e-mail a cui rispondere, il sito web, e quindi penso che non avrei proprio il tempo di seguirli. Anche se diverse persone mi stanno incoraggiando ad essere presente su Instagram… Ma non sono sicuro, sono una persona molto impulsiva e facile alla tristezza, reagisco continuamente alle notizie e a quello che succede intorno a me. Ho paura che i social network diventerebbero i conduttori per la mia rabbia quotidiana, e forse non è una buona idea.
Vorrei chiederti come approcci il progetto in quanto artista, e come affronti nello specifico il progetto dei tuoi lavori.
Non ho mai studiato arte, sono un architetto e uso questa metodologia.
Quello che faccio è darmi un programma, e quindi seguirlo: mi chiedo qual’è l’obiettivo, quindi costruisco gli strumenti per arrivare a quell’obiettivo. Guardo al contesto e allo spazio, e per me questo non è mai esclusivamente fisico, è uno spazio culturale, politico, sociale.
Prima di agire devo comprendere queste cose, quindi uso gli strumenti dell’architetto, come la luce o altri elementi, per trasmettere il fine del progetto.
Penso riguardi quasi esclusivamente il design, non c’è nulla di arbitrario. Non sono il tipo di artista che fa gesti teatrali sulla tela, sono molto più cerebrale: mi interessa il processo e il pensiero, il provare a trasmettere idee e immagini in un modo molto preciso.
Consideri anche il rapporto con il pubblico in questo tuo modo di lavorare?
Penso riguardi anche il fatto che intendo la comunicazione come qualcosa che non è solo semplicemente l’invio di un messaggio. Inviare un messaggio è ricevere una risposta, altrimenti non c’è comunicazione.
Così quando creo un lavoro provo sempre a includere strumenti propri della comunicazione, in modo che il pubblico risponda al lavoro e io posso realmente comunicare con loro.
Recentemente sono rimasto particolarmente colpito dal tuo lavoro di Public Art, Chiaroscuro, realizzato a Roma in occasione della mostra La Strada. Dove si crea il mondo al museo MAXXI. Vorrei discutere con te di come hai pensato e realizzato un simile progetto, in cui il tuo lavoro esce dagli spazi del museo attraverso le affissioni, strategia che avevi già applicato anche qui a Milano nel 2008 con Questions, Questions.
Il MAXXI mi aveva invitato a partecipare alla mostra, e alla domanda su cosa volessi fare ho risposto: “qualcosa nella strada”! A quel punto mi hanno messo in quella categoria, e mi hanno chiesto come avrei voluto fare, e senza avere ancora alcun contenuto ho iniziato a ragionare sul budget, sulle possibilità, sugli spazi di affissione che avevamo a disposizione. Dopo alcune ricerche mi hanno riferito che avevamo 2000 fermate del bus e tutti gli spazi della municipalità di Roma, solitamente utilizzati per campagne politiche. A quel punto ho iniziato a pensare al progetto per queste due tipologie di supporti, oltre alla possibilità per i visitatori di poter prendere e portare con se un poster, in modo che potesse circolare ulteriormente, finire sui social media e così via.
A questo punto mancava solo il contenuto, e ho pensato a quello che volevo dire oggi a Roma. Ovviamente avevo seguito con orrore fino a quel momento la situazione politica italiana, Trump per me è il nemico numero uno ma Salvini gli si avvicina pericolosamente: il modo in cui ha trattato gli immigrati è semplicemente terribile, così come il modo in cui ha attaccato Mimmo Lucano, il sindaco di Riace che stava creando un modello di accoglienza straordinario.
In questo modo sei arrivato ad Antonio Gramsci.
Volevo realizzare qualcosa che parlasse di questo, della nuova Italia, e come succede la maggior parte della volte ritorno sempre a Gramsci. Sono un gramsciano, l’ho scoperto come autore in Cile durante la resistenza a Pinochet e al tempo era un pensatore molto importante, parte integrante delle discussioni su cosa fare. Da allora sono sempre stato un suo accanito lettore, ho tutti i suoi libri e grazie a lui ho scoperto Pasolini.
Ho pensato We should bring Gramsci back, abbiamo bisogno della sua voce in questo clima, anche perché sono un grande fan della sinistra italiana degli anni Sessanta e Settanta, che raggiunse il trenta per cento dei voti alle elezioni, ed è triste vedere come sia completamente collassata e scomparsa. Ho sempre avuto una certa nostalgia per l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, anche se non sono italiano e non vivo – né ho vissuto – qui.
Quindi ho selezionato uno statement di Gramsci, che pensavo rappresentasse esattamente quello che sta succedendo ora non solo in Italia ma in tutto il mondo:
“Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”.
L’originale di Gramsci in realtà è leggermente differente, “il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” (A.Gramsci, Quaderni dal carcere, Q 3, §34, p. 311), di questo più tardi ci fu una traduzione in francese, bellissima, che sostituì “interregno” con “chiaroscuro”.
È decisamente più poetico.
Sì, chiaroscuro e l’Italia. Meraviglioso! E mostri invece di fenomeni morbosi…
Ci fu in seguito una traduzione italiana della traduzione francese, è così che è nato il testo che ho usato. Scoprii questa versione grazie a Slavoj Žižek, che aveva citato Gramsci usando questo testo e mi portò a indagare su questa storia.
Penso sia molto più bella, e ho deciso di usarla.
Il pubblico come ha reagito?
Quando abbiamo iniziato la campagna, nessuno sapeva fosse un progetto artistico. Il mio nome non c’è sui poster, solo quello di Gramsci. Così tra i social media e la stampa sono iniziati a uscire articoli che si chiedevano cosa fosse, se fosse il nuovo Partito Comunista oppure un nuovo giornale, se stesse rinascendo “L’Unità”… Era fantastico, non ci potevo credere.
Dopo una settimana il museo attraverso un tweet ha svelato che era un lavoro di Alfredo Jaar: a quel punto l’attenzione sui social media è aumentata ancora, e ho trovati dei puristi di Gramsci arrabbiati che sottolineavano come non fosse quello che aveva detto realmente, che non era la versione originale e così via.
La sinistra italiana è scomparsa, non fa nulla, io sono cileno e vivo a New York, arrivo e faccio questo lavoro, la gente immagina un ritorno del Partito Comunista, e mi attaccano perché non ho citato Gramsci nella sua versione originale… Datemi tregua!
Penso sia una reazione molto interessante, in particolare per un lavoro di arte pubblica oggi in Italia.
Sono molto delle controversie che si sono sollevate, di tutto quello che è successo, e sapevo che sarebbe potuto succedere. Ho realizzato più di 75 progetti di arte pubblica in tutto il mondo, ne realizzerò presto uno permanente per ArtLine Milano, curato da Roberto Pinto, e quello che ho imparato è che in questo tipo di lavori perdi il controllo. Quando metti qualcosa là fuori nel mondo ne perdi il controllo, anche se lo progetti nel modo più specifico e attento al contesto, non avrai mai idea di quello che potrà succedere. è nella natura dei lavori per lo spazio pubblico.
Sono sempre stato molto affascinato anche dal tuo lavoro per le copertine dei due dischi di tuo figlio, Nicolas Jaar. Come è nata questa collaborazione?
In realtà non ho propriamente disegnato le copertine. Nicolas, che conosce intimamente il mio lavoro, mentre componeva il suo primo disco era alla ricerca di immagini per la copertina e così mi contattò per questa immagine: un passeggino, con lui, nella terra di nessuno a Berlino. È un mio lavoro e si chiama The New World: avevamo vissuto nella capitale tedesca per un anno e lui aveva pochi mesi, l’avevo portato dove il muro era appena caduto e pensavo fosse un nuovo mondo per la Germania finalmente riunita, per l’Europa dopo la fine della guerra fredda e per il mondo in generale. Ma anche per la mia famiglia, visto che avevamo appena avuto un bambino, Nicolas.
Per questo motivo si identificava con questa immagine al momento, era il suo primo disco e lui l’ha presa da me, disegnando la copertina.
Per la copertina del suo secondo album invece, che era molto politico e in cui reagiva a quello che stava succedendo negli Stati Uniti, aveva scelto una delle mie immagini più conosciute, A logo for America.
Come ultima domanda vorrei chiederti se hai qualche progetto che non sei riuscito a realizzare.
Sono un project artist, non uno studio artist, e lavoro rispondendo a progetti in tutto il mondo. Quindi in un certo senso non ho progetti non realizzati, perché non invento cose dal nulla, ho solo dei taccuini pieni di note e idee, che aspettano il giusto contesto.