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Una lunga intervista al nuovo assessore alla Cultura, Daniele Del Pozzo

Scritto da Salvatore Papa il 20 dicembre 2024

Bologna ha finalmente un assessore alla Cultura, Daniele Del Pozzo. Un assessorato puro, senza altre deleghe sovrapposte, tipo turismo o sport, com’era successo negli anni scorsi, e con poteri pieni, a differenza di Elena Di Gioia che, prima di dimettersi, era stata la delegata alla cultura “del Sindaco”. Classe 1966, originario di Ancona, Del Pozzo entra a Palazzo d’Accursio dopo una lunga esperienza di direttore artistico di Gender Bender, il festival del Cassero dedicato alle rappresentazioni del corpo e delle identità di genere e orientamento sessuale nella cultura e nelle arti contemporanee. È stato, inoltre, tra i fondatori del Link Project e ha già avuto qualche esperienza in Comune durante l’assessorato di Angelo Guglielmi, nella giunta Cofferati, quando insieme alla stessa Di Gioia, progettò e curò le stagioni culturali estive bè bolognaestate.

Del Pozzo arriva in un momento molto delicato, con la città soffocata da un turismo che negli ultimi anni ha spesso trasformato le politiche culturali in strategie di intrattenimento e marketing e con il settore pubblico dei musei e delle biblioteche in affanno e in stato di agitazione sindacale.

Nonostante il suo incarico sia partito da pochissimo, abbiamo provato a capire quali sono le sue intenzioni.

 

Quando hai ricevuto la proposta come l'hai presa? Te l'aspettavi?

È stata una notizia inaspettata e andava presa una decisione in tempi rapidi. Sono rimasto piacevolmente sorpreso perché l’ho trovato un attestato di stima, ma ammetto che sono stato molto combattuto perché la proposta significava un cambio radicale, ovvero lasciare completamente tutta l’esperienza di più di 25 anni come curatore, direttore artistico e progettista culturale e assumere un ruolo politico, cambiare completamente direttiva.
Nel mio lavoro di curatela ho sempre usato il concetto di “attivismo culturale”, cioè il tentativo di intervenire con gli strumenti della cultura, degli immaginari, dei linguaggi delle arti contemporanee per operare una trasformazione nella società, nel tessuto sociale in cui viviamo, anche in termini di relazioni. Ho pensato che quest’idea avrei potuto portarla con me, coltivarla con delle possibilità forse anche più incisive rispetto al passato. In questo ci ho visto una continuità e lì ho trovato la ragione forte per accogliere la proposta.

Hai chiesto qualche tipo di garanzia?

Quello che non ho neanche dovuto chiedere, ma che mi è stato dichiarato in maniera molto chiara sin da subito, è un sistema di delega in senso pieno, altro elemento che mi ha convinto ad accettare l’incarico. Già solo questo mi sembra un patto molto chiaro.

Hai provato qualche tipo di imbarazzo rispetto alla persona che ti ha preceduto, Elena Di Gioia? Voglio dire: non imbarazzo con lei, ma per il fatto che lei non avesse ricevuto una delega piena.

La prima telefonata che ho ricevuto dopo l’annuncio pubblico della nomina è stata proprio quella di Elena ed è stata una telefonata di grande felicità.
Ci conosciamo da anni, abbiamo anche lavorato insieme, ho una grande stima per lei, penso che sia un’ottima operatrice culturale e una grande direttrice artistica. Quindi questo scambio sincero mi ha molto confortato.
Non ho provato imbarazzo, ma ho invece sentito una grande responsabilità. E su questo vorrei allargare lo sguardo non solo al precedente mandato. L’assessorato alla Cultura è stato nel tempo, e anche in giunte diverse, molto frammentato. Una nomina di assessorato pieno fatta a me dopo anni di deleghe o assessorati che si sono interrotti mi riempie di responsabilità, perché immagino che ci siano molte aspettative su un ruolo che a lungo è stato desiderato e che finalmente viene ricoperto. Ma come sappiamo le grandi aspettative possono immediatamente tradursi in delusioni. Per questo parlo di responsabilità.

Negli ultimi anni a Bologna la cultura è stata confusa spesso con altri temi, su tutti il turismo. Spesso si è usato il termine cultura per indicare l'intrattenimento, e non c'è nulla di male nell'intrattenimento, ma insomma forse ci sarebbe bisogno di fare un po' di chiarezza...

La decisione del Sindaco di creare un assessore e un assessorato dedicato solo alla cultura, mi sembra una perimetrazione che è anche una precisa volontà, un chiaro desiderio e anche forse una necessità.
E che questa cosa non sia stata frutto di negoziazione, ma sia stato un accordo pieno fin dall’inizio, dichiara come il Sindaco abbia intelligentemente riconosciuto il valore della cultura in sé, non legandola in maniera funzionale o strumentale ad altri tipi di obiettivi. Per cui mi sembra che lì ci sia già una dichiarazione di una direzione ben precisa.

Quali saranno gli obiettivi del tuo mandato?

Io ho una mia visione, ma le visioni per realizzarsi devono fare i conti con le effettive possibilità di realizzazione. E queste possibilità dipendono da tre variabili: la variabile tempo, la variabile spazi, la variabile risorse, risorse umane ed risorse economiche. Riguardo al tempo, so già che il mandato scadrà con la giunta, quindi fra due anni e mezzo. Sugli spazi e le risorse umane, io ho una mappatura della città, ma non corrisponde con la città e non sono così presuntuoso da dire che conosco tutto. Rispetto alle risorse economiche, io sono entrato da pochi giorni e devo ancora prendere atto di quello che è un bilancio del Comune, che per il 2025 è sostanzialmente già fatto, e capire quali sono i margini di manovra. Quindi, al momento, attendo di acquisire i dati necessari prima di lanciarmi a dire chissachè, sarebbe sciocco farlo. Sarebbe come mettere il carro davanti ai buoi. Siamo portati a pensare a facili soluzioni tirate fuori dal cilindro da un genio di turno, ma io mi sento più un artigiano che ha bisogno di trovare e conoscere prima la materia per poi, con quella, realizzare al meglio la visione che ha in testa.

E qual è questa visione?

Quello che posso già dire è che cercherò un dialogo internazionale, perché conosco l’ambito ed è una dimensione che permette di sviluppare delle progettualità che possono trovare dei possibili sostegni e collaborazioni europei. Mi immagino che possa essere questo un timone da condividere con chi opera in città.
C’è poi la questione dei linguaggi del contemporaneo, perché mi sembra che sul termine contemporaneo ci sia concordia all’interno dell’amministrazione, nel senso di fare i conti in tempo reale con trasformazioni che avvengono molto velocemente intorno a noi. Una caratteristica del contemporaneo che è possibile interpretare anche grazie alle visioni degli artisti e delle artiste. Dopodiché io sono convinto che il contemporaneo agisca in termini trasformativi rispetto anche a quello che è il tema della tradizione e possa dialogare con la tradizione e con la storia di una città.
Bisognerà poi capire quanto il ruolo degli artisti, degli operatori, delle operatrici, delle artiste possa funzionare veramente come propellente in questo lavoro di invenzione di nuovi modi di vivere la città. Per quello che ho sperimentato in questi anni, grazie alla cultura e ai linguaggi artistici è possibile creare relazioni fra persone e comunità. Un desiderio che porto con me è cercare di capire come si può agire in questo senso su una scala più ampia.
La cultura è anche quel linguaggio comune che ci permette di metterci d’accordo su che cosa significa vivere insieme. E su questo il dialogo tra le differenze – e uso le differenze nel senso più ampio del termine – può essere davvero una chiave. Bologna è una città molto complessa che ha fatto anche dei passi importantissimi rispetto al riconoscimento dei diritti di cittadinanza, ma bisogna anche porsi il tema di come mettere in dialogo questo tipo di differenze e realtà apparentemente distanti. Penso che questa sia una sfida molto interessante.

A proposito di tradizione: tu stesso hai alle spalle una tradizione e una formazione che viene da alcuni importanti spazi culturali e indipendenti della storia della città. E la questione dell'indipendenza degli spazi è stata negli ultimi anni, a mio modo di vedere, una chiave per comprendere alcune importanti trasformazioni. Ovvero, lo spazio di indipendenza si è ridotto schiacciato da un sistema costruito su bandi, co-progettazioni eccetera. La tua generazione, che è quella che ancora oggi tiene alto il nome della città in ambito culturale, si è invece potuta formare proprio grazie alla quasi totale libertà di azione. Ma questa rendita prima o poi finirà. A chi passerete il testimone? Perché a me non sembra che la città abbia molto da offrire in termini di ricambio generazionale. E su questo ci sono forse anche delle responsabilità.

Le esperienze di cui stiamo parlando sono esperienze di 30 anni fa. La città di oggi è completamente diversa nel senso che le condizioni con cui si opera oggi sono diverse rispetto a quelle di 30 anni fa. Nel frattempo c’è stata anche una riforma del settore pubblico e, quindi, tutta una parte di burocratizzazione richiesta alla macchina amministrativa. Trent’anni fa era tutto molto più leggero. In questo bisogna perciò considerare che ci sono sì delle decisioni che spettano alla politica, ma ci sono poi anche delle inerzie dettate dalla macchina burocratica. Se non ci diciamo questo rischiamo di raccontarci una storia che è vera solo a metà.
C’è stato anche un cambiamento sostanziale; cioè la mia generazione ha scelto di farsi adottare da Bologna perché c’era il Dams. E io credo che quella capacità attrattiva che aveva Bologna grazie al Dams per le nuove generazioni adesso non ci sia più, perché il Dams nell’immaginario dei giovani non è più così desiderabile. Le destinazioni sono altre, altre città, e l’ho visto seguendo molto da vicino la scena artistica delle nuove generazioni. Se Bologna non è più un luogo formativo, è vero però che è ancora il luogo in cui si ottiene una visibilità. E vorrei sottolineare che Bologna mantiene un ambito di curiosità e di interesse verso le nuove manifestazioni delle giovani generazioni che altre città non hanno in maniera così spiccata. Bologna fa, quindi, parte ancora di una costellazione. Ovvero: non tutto è andato perso.
Il tema del ricambio generazionale riguarda ovviamente le figure chiave che sono quelle degli operatori e delle operatrici. Lì il tema è grosso, ma è un tema che investe non solo la dimensione Bologna, ma la dimensione nazionale.
Dove si formano oggi un curatore o una curatrice? Bologna ha reso possibile che ci fosse una crescita di un’intera generazione, così tante figure con così tante professionalità specifiche in così poco spazio. Una cosa del genere è ancora miracolosa. Ma se parliamo di ricambio generazionale, bisogna porre il problema su scala nazionale. Ed è ovviamente un tema che riguarda anche la questione degli spazi, spazi di programmazione o di sperimentazione aperta, come lo era il Link ad esempio. Ma, attenzione: il Link era frutto di un accordo preso con il Comune di Bologna; il Cassero, altra esperienza per me assolutamente formativa, nasce esattamente da un dialogo con le istituzioni. Questa è la grande sfida ancora oggi. Ci sono dei semi che sono stati piantati dall’amministrazione pubblica, che ha riconosciuto il valore d’esperienza di alcune creatività, generando poi un luogo di formazione e un luogo di rilancio anche per gli immaginari. Prima parlavo della variabile degli spazi: ecco vorrei capire anche quali sono gli spazi di manovra perché operazioni così lungimiranti, che agiscono su una prospettiva di lungo termine, possono essere ancora possibili.
Se Bologna, e uso se, ha intenzione di portare avanti un ricambio generazionale sul fronte della creatività, un ragionamento bisognerà farlo.

Quindi, se ho capito bene, dovremmo aspettarci delle scelte nette?

Ho esattamente questo tipo di incarico, ho un incarico politico.

Aggiungo che quando parliamo di ricambio generazionale, non possiamo non considerare la crisi abitativa perché una città sempre più cara è una città che ha sempre meno tempo libero per immaginare e fare cultura e perché, banalmente, per pagare affitti molto più cari bisogna lavorare molto di più.

Assolutamente mancano le condizioni abitative e gli affitti sono diventati inaffrontabili. Ci sono sempre più persone che scelgono altre città per studiare e per lavorare. Anche questo è un fenomeno nuovo con cui bisogna fare i conti. Ma hai detto una cosa interessante: per pagare un affitto bisogna lavorare di più e non essere pagati di più. È così perché c’è un problema con le retribuzioni. E anche questo non è un tema bolognese, ma nazionale. È vero che magari da qualche altra parte l’affitto costa di meno, ma comunque ciò che si guadagna non è assolutamente proporzionale al costo della vita.

Un altro tema molto importante è quello dei servizi culturali pubblici, che sono un po' in affanno, in particolare musei e biblioteche. Nell'ultimo anno, dopo tanto tempo, i lavoratori del settore pubblico della cultura si sono messi in stato di agitazione sindacale perché, nonostante l'assenza di turn over e nuove assunzioni - e i vincoli sulle assunzioni, lo sappiamo, sono nazionali - sono stati annunciati nuovi musei pubblici (Museo dei Bambini, Museo delle Case Popolari, Polo della cultura democratica, Palazzo Pepoli), che è un po' come fare il passo più lungo della gamba. Ci si chiede chi ci andrà a lavorare in questi luoghi e se è giusto che il Comune di Bologna si avvalga di appalti e, quindi, lavoro precario.

A fine gennaio del prossimo anno ci sarà una presentazione del piano strategico dei musei. In questo periodo avrò, quindi, modo di studiare anche quelle che sono le disposizioni, le soluzioni, gli aggiustamenti, le ragioni che stanno dietro a questa ripianificazione. Dico subito che sarà prioritario per me studiare anche questo tassello.

A questo si lega anche il ruolo della Fondazione Bologna Welcome e della Fondazione Innovazione Urbana Rusconi Ghighi, che negli ultimi anni hanno acquisito sempre più anche compiti di gestione culturale rispetto alle loro funzioni originarie...

Studierò anche questo aspetto chiave. Da quel che ho avuto modo di vedere, lavorando da poco all’interno del Comune, mi sembra comunque chiaro che l’obiettivo dell’amministrazione continui ad essere la presa carico del bene comune. Bologna su questo ha sempre mantenuto la barra dritta.

Hai lavorato con l'assessore alla Cultura, Angelo Guglielmi. Ti ispirerai a lui o a qualcun altro?

Tradirei l’incarico se dicessi che mi ispiro a qualcuno, perché penso che l’incarico mi è stato dato per quello che sono, quindi no, porterò il mio stile.

Guglielmi è stato un soggetto straordinario, una grande persona e un grande assessore, ma agiva in un momento in cui la storia e le risorse di Bologna erano decisamente diverse. Le fondazioni bancarie avevano allora delle risorse che mettevano a disposizione del Comune con grande generosità. Lavorerò con una città con caratteristiche completamente diverse.

Più qualità o più quantità?

Più qualità.