Ci sono luoghi che hanno scandito l’evoluzione della cucina italiana: uno dei principali è proprio “il luogo di Aimo e Nadia”. Questo non è un semplice ristorante, ma un luogo in cui s’intrecciano memoria, tradizione, evoluzione, italianità e arte con un’identità ben precisa.
Il ristorante è stato avviato con successo dai genitori di Stefania Moroni che oggi, insieme ad Alessandro Negrini e Fabio Pisani in cucina, Nicola Dell’Agnolo e Alberto Piras in sala, guida una squadra davvero forte. Ogni collaboratore ha, infatti, una propria e distinta personalità che però si fonde in un’unica visione: tanti pezzettini di un tutto che funziona come un movimento circolare, continuo e senza sforzo. Non ho scelto queste parole a caso poiché davvero in questo luogo tutto sembra tornare con un senso logico che chiude un cerchio artistico e culinario.
Comincio con un aneddoto dovuto che rappresenta la partenza da cui tutto si è evoluto: lo spaghettone al cipollotto di Aimo.
Uno dei piatti simbolo che racconta la storia di questo ristorante. È una ricetta unica fatta di grande materia prima, conoscenza, tecnica e cura. Non la racconto per rispetto e perché secondo me è uno di quei piatti sacri che bisogna solo assaggiare, per poi fermarsi a pensare. Ora comincio il mio pranzo!
Stoccafisso in raviolo croccante di pane
Un raviolo fritto, fatto con il pane, l’alimento più semplice ma importante per la nostra tavola. Questo raviolo è facilissimo da preparare, mi racconta lo chef Alessandro Negrini: «Prendi il pane, quello di Matera però, che è l’unico a mantenere la giusta umidità – non usare un pane raffermo, mi raccomando – e con sfogliatrice per la pasta fresca lo tiri sottile… poi niente, ci fai un raviolo, lo riempi di baccalà e lo friggi. Facilissimo, no?». Lo stacafisso è ammollato in acqua poi ventresca, pelle e polpa vengono cotte separatamente: la pelle è gelatinosa, quindi va assolutamente utilizzata per ridurre al minimo le quantità di olio usate in fase di mantecatura; l’olio scelto è perciò molto delicato e se voleste rifare questo piatto a casa, utilizzate quello del Garda o un olio ligure. Ho particolarmente apprezzato questo raviolo che mi ricorda il baccalà mantecato che mi prepara mia zia a Rovigno, in Istria. In questo caso, il raviolo, una volta farcito e fritto, è accompagnato da una salsa a base di yogurt e senape, poi radicchio, rucola, menta e marasciuolo tritato, alla base del piatto una fetta sottile di rapa bianca marinata. Croccante, freschissimo e gustoso.
Quasi un raviolo di seppia
Questo piatto parte dall’utilizzo di una tecnica antichissima ma indispensabile per rendere le fibre di alcuni pesci morbidissime: l’arricciatura. «Prima l’arricciatura la facevamo a mano», mi racconta lo chef Fabio Pisani, «poi un mio parente ci ha regalato una macchina creata ad hoc che con un movimento ondulatorio arriccia il pesce e che noi utilizziamo sia per il polpo che per le seppie. Senza questo procedimento, non potremmo gustare una seppia così morbida… ma tu lo saprai meglio di me». Ridiamo. La farcitura del quasi raviolo è fatta con le interiora della seppia e il suo nero. Il piatto viene accompagnato con lampascione, limone, scamorza affumicata naturalmente e una crema di mandorle. Interessante come la tecnologia qui sia al servizio del gusto e le tecniche utilizzate siano completamente naturali. In molti ristoranti, riscontro l’utilizzo di troppi procedimenti chimici, polverine magiche addensanti, liscianti che regalano un’estetica indubbiamente più che gradevole e anche rapida da ottenere ma, a mio avviso, che perde di vista l’obiettivo principale: il gusto. Si può ottenere lo stesso risultato con tecniche naturali, evitando la standardizzazione di processi e gusti omologati. Questa è la cucina che preferisco: il gusto ci guadagna e anche la pancia, fidatevi. Come si capisce già da questi due piatti appena descritti, la materia prima è al centro dell’attenzione di questa cucina: ci sono 82 fornitori solo per la parte food. È bello vedere che c’è chi sceglie di lavorare con tante persone diverse, aiutando le piccole realtà a sopravvivere, migliorandone anche la logistica.
Spaghettoni alle cime di rapa con colatura di alici
Con questo piatto la mia parte pugliese ha fatto le capriole! E un po’ anche quella piemontese. Infatti qui si fondono nord e sud. Fabio è pugliese e io pure, da parte di papà: questo spaghettone mi ha lasciata estasiata. Sono cresciuta quasi a suon di orecchiette e cime di rapa, per cui le collego necessariamente ad acciuga, olio e peperoncino. In questo piatto, ho ritrovato lo stesso equilibrio ma raggiunto attraverso la colatura di alici, più elegante e delicata rispetto alla sapidità dell’acciuga. Il tutto è poi bilanciato con il tartufo nero e la nocciola tostata: all’amaro della cima, che personalmente adoro, si aggiunge la rotondità della nocciola piemontese. La prima volta che ho assaggiato questo piatto, lo avrei voluto
con un tocco piccante e così, sfacciatamente, l’ho detto allo chef chiedendogli: «Tu sei pugliese e devi dirmi come fai a non mettere il peperoncino con la cima di rapa?!». Qualche tempo dopo, nell’intervista dell’altro giorno, mi dice: «Sai, poi il peperoncino in questo piatto l’abbiamo aggiunto; ci piace ascoltare le critiche costruttive dei nostri clienti che sono sempre più preparati». Insomma, mi hanno fatto un regalo. Le persone fanno la differenza e, nel loro approccio, questo è molto evidente.
Tortelli farciti di ossobuco di Fassone – omaggio a Milano
«Un piatto rotondo e rassicurante» – mi spiega Alessandro – «Questo non significa dire no alla sperimentazione, ma offrire il giusto equilibrio tra ricordo e innovazione. Quando colpisci il palato, crei un effetto memoria e il cliente torna per magiare proprio quel piatto. Alcune ricette non possiamo proprio toglierle dalla carta: la nostra proposta è dinamica ma non ci permettiamo uno sconvolgimento totale e nemmeno lo vogliamo. Fabio ed io siamo riusciti a creare un filo conduttore con il processo iniziato da Aimo che va verso la finezza: elevare senza snaturare».
Anche in sala ho potuto notare una sensibilità particolare: 11 anni fa, quando gli chef sono arrivati al luogo, il maitre non c’era. Era Aimo in persona a occuparsi dei propri clienti. «In un certo senso sentivamo la responsabilità di sradicare un concetto familiare per arrivare ad un approccio più imprenditoriale». Nicola Dell’Agnolo, maitre de maison, è con noi dall’inizio, mentre il sommelier Alberto Piras solo da un paio d’anni».
Una bella combo, questa: Alberto fa incetta di premi e mi dice che, grazie al confronto con questo team, riesce a crescere ogni giorno; Nicola ha una professionalità forte che caratterizza l’unicità di questo posto.
Il piccione
Il piccione credo sia uno dei punti di arrivo per un cuoco. Un piatto molto tecnico. Quello assaggiato qui sfiora la perfezione con l’aggiunta di un’idea in più: viene servito un agnolotto in brodo e ripieno delle sue interiora. Ho amato questo piatto. Andate a pranzo e assaggiate anche soltanto questa a portata: merita il viaggio!
La michetta
Il dolce che non ti aspetti alla fine di un pasto: la pasta choux che diventa una michetta golosa. Pane e cioccolato, esiste qualcosa che da bambina sognavo di più?
Alla fine di uno dei miei pranzi memorabili da Aimo e Nadia, faccio una chiacchierata anche con Stefania Moroni, CEO. Mi racconta che, 18 anni fa, appena entrata a far parte di questa realtà, ha subito voluto apportare un contributo personale: «Questo è un luogo culturale, già ai tempi in cui c’erano i miei genitori, negli anni 70, eravamo uno dei primi e pochissimi ristoranti ad avere una persona totalmente dedicata al vino. Oggi collaboro con Paolo Ferrari, teorico dell’Arte in-Assenza, per tanti progetti. L’artista parte da un pensiero culturale tipicamente occidentale in cui la realtà ha un piano di lettura che va oltre la mera evidenza; qualcosa che possa esprimere ciò che è immediatamente percepibile ma che sia anche altro».
Da cliente, colgo completamente il significato di questo pensiero applicato alla loro cucina. Se partiamo dalle origini, il cipollotto può sembrare solo un ingrediente di qualità ma, lavorato come nello spaghetto di Aimo, il suo significato diventa anche altro; comprende il gesto e descrive due realtà: quella subito visibile di un’ottima materia prima e quella di tecnica e cura necessarie per lavorare questo piatto che regala così qualcosa d’inaspettato. Un progetto artistico in divenire, pensato come un unicum, un’istallazione che si evolve proprio come questo luogo.
«Una realtà gastronomica unica in cui s’intrecciano creatività e arte, memoria gustativa italiana e gesto contemporaneo».
Come dicevo all’inizio: il cerchio si chiude!
Stefania Corrado*
*Cuoca, docente, consulente e, in poche occasioni speciali come questa, food writer. MILANO CONFIDENTIAL è la sua rubrica su Zero che parla di ristoranti a Milano in cui ritrova qualcosa che le piace e che racconta come se dovesse scriverlo per un amico. Leggi qui la sua recensione di Spazio
Tutte le immagini © Studio Brambilla Serrani