Anche a Milano il sake è di casa. The house of sake è Sakeya, un localino niente male situato nel cuore della nostra città. Per parlarvi di Sakeya inizio dalla base: il sakè non è un vino, come molti credono. È un infuso fermentato con riso, acqua e riso koji (una muffa naturale difficilissima da rendere). Se vogliamo, per composizione e procedimento, il sake è più simile a una birra. I giapponesi lo sorseggiano durante il pasto, e non ho dubbi che la bevanda si sposi bene con i sapori dell’antica tradizione.
Vado a Sakeya con un paio di amici e assaggio il sakè più secco della lista. Molto buono! Mentre bevo e chiacchiero, mi godo l’atmosfera e le tantissime bottiglie schierate tutt’intorno, sulle pareti, che come samurai mi guardano minacciose.
Ottimo metodo per presentare una delle bevande più variegate al mondo. Ne esistono diverse migliaia di qualità a seconda del produttore, della terra e del clima. A Sakeya ce ne sono circa duecento tipologie diverse pronte ad accompagnare i piatti giapponesi (quelli veri), preparati nella cucina a vista con la cura che contraddistingue questo popolo.
Gli yakitori sono buoni, solo un po’ salati (non per condimento ma per prezzo).
Accompagno lo spiedino di bambù con un cocktail-sake al tè sancha e bergamotto, servito in una elegante teiera, insieme a un biscotto della fortuna che recita così: “L’amore trova senso nella profondità di uno sguardo”. Sì – lo so – è una frase un po’ banale, forse a la Fabio Volo (ndr. potrei sbagliare, non ho mai letto nulla di Fabio Volo), ma nella stanza degli innamorati trova il suo perché.
La stanza degli innamorati è in fondo alla sala principale, nascosta dietro a un sipario pesante e una porticina di legno. All’interno ci sono solo due sedie, una di fronte all’altra, e un curioso aggeggio pronto per essere suonato. Il seguito lo lascio alla vostra immaginazione.
Gli altri cocktail sono fra i più vari, ovviamente tutti a base di sake. Il giorno è ormai finito, è tardi, devo andare. Esco da Sakeya, mi trovo in una via tanto graziosa. Mi guardo intorno e mi chiedo: «sono a Milano o a Tokyo?» In fondo siamo tutti sotto lo stesso cielo, “così infinito che a guardarlo fisso mi dà la vertigini” (Norwegian Wood, Haruki Murakami) o forse sarà stato il sakè?
Alessia Musillo