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Carlotta Franco

Cercare costantemente uno spazio da occupare, interrogarsi sulla propria identità per capire come farlo

Scritto da Giorgia Martini il 10 settembre 2023
Aggiornato il 20 settembre 2023

Occupare lo spazio significa plasmarlo, da un punto di vista fisico e narrativo, e plasmare chi ci vive. Con Carlotta Franco, architetto e autrice, parte del team di DOPO?, siamo partite dal progetto Eterotopia. Atlante di un’occupazione, esperienza di indagine a La Maddalena, che due anni fa è diventato un volume edito Quodlibet, per esplorare il rapporto fra le istituzioni politiche e le esigenze dei cittadini, della cultura del progetto e del ruolo di chi fa produzione culturale.

 «Occupazione quindi temporanea o permanente, occupazione di intenzioni politiche mai realizzate, ma anche in senso letterale, di persone che fisicamente popolano e scolpiscono un territorio.»

 

Cosa significa il termine occupazione, per l’uso che ne avete fatto all’interno di Eterotopia, e che concettualmente può esprimere tanto una pratica violenta, quanto un atto illegale, ma anche una forma di resistenza sociale?

Abbiamo volutamente utilizzato un termine ambiguo, che includesse l’idea di situare spazi e individui all’interno di un territorio. Abbiamo cercato di mettere in discussione l’impatto della presenza turistica e militare sull’arcipelago de La Maddalena, ma anche tutto il portato narrativo e il carico leggendario che queste dimensioni generano e che plasmano il territorio contemporaneo, esattamente come le presenze architettoniche e le forze politiche. Il termine occupazione contiene molteplici sfumature, non tutte legate all’illegalità e non per forza con accezioni negative. Noi lo abbiamo ricondotto sia alla storica presenza della NATO americana, con tutti gli effetti negativi e positivi che ha generato, ma anche al fallimento politico del G8 del 2009 e al carico antropico spropositato che si insedia nell’arcipelago da maggio a settembre, noi compresi. Occupazione quindi temporanea o permanente, occupazione di intenzioni politiche mai realizzate, ma anche in senso letterale, di persone che fisicamente popolano e scolpiscono un territorio. 

Corvetto è una zona famosa per le sue occupazioni, abitative e non solo, qual è secondo te il volto del quartiere oggi?

Corvetto unisce una presenza residenziale importante, con una dimensione industriale, due cose evidentemente correlate. Questo è un quartiere che ha già subito grandi mutazioni e oggi è sicuramente molto diverso da com’era anche solo dieci anni fa, pur restando una zona limitrofa alla campagna. È assurdo pensare come un quartiere ancora così fisicamente prossimo al mondo agricolo, sia ora preso d’assalto e destinatario di tanti investimenti in così breve tempo. Inevitabilmente siamo davanti ad un fenomeno erosivo, in modo particolare degli strati sociali che qui sono radicati da tempo e che si distinguono per una forte vocazione operaia. La questione sta tutta nella relazione tra erosione e costruzione.

Come credi che evolverà lo scenario in quest’area della città, posta l’attuale fase di espansione?

L’espansione della città in questa direzione probabilmente era inevitabile, se pensiamo alla rapidità con cui Milano si sta estendendo in questi anni. Ciò non toglie la natura lacerante di questo processo, che coinvolgerà, tra l’altro, anche le occupazioni abitative illegali. Il punto è che spesso questo genere di occupazioni di necessità sono date dalla difficoltà di chi le opera nel dialogare con le istituzioni, che impedisce loro di inserirsi all’interno di un processo codificato per l’assegnazione dell’alloggio. In molti casi sono persone lontane dal fare amministrativo e distanti dalle fasce di popolazione che per condizione socio-economica più facilmente accettano dinamiche burocratiche regolari. Sicuramente, come in tanti quartieri simili di altre città in espansione, molte e molti saranno costretti a migrare più in là, dove la città ancora non comprime e schiaccia.

Quale direzione prenderà secondo te questo processo che hai definito lacerante?

Immagino che questo tipo di espansione della città finirà per inglobare tutte le zone d’ombra, in cui gli strati della popolazione che hanno sempre fatto più fatica a identificarsi nel mondo lavorativo e sociale, hanno trovato spazio. Sono necessari veri progetti sociali, abitativi e di servizi, progetti di inclusione e sostenibilità umana e ambientale. Progetti che abbiano il coraggio di sfruttare la ricchezza immobiliare e finanziaria della città per lasciare spazio a ciò che non produce profitto, ma vita, e non morte, in città.

Corvetto insieme ai quartieri limitrofi è la zona della città che in modo più spontaneo si apre alle aree rurali. Secondo te l’espansione prevista qui può tutelare questo residuo di campagna milanese?

Idealmente direi di sì, nel senso che preservare il legame con il territorio è uno dei capisaldi della cultura del progetto, che però in Italia si è profondamente sfaldata negli ultimi decenni. Questo non significa che non ci siano architetti potenzialmente capaci di mantenere un codice di legame con il territorio, ma è indubbio che molto spesso le esigenze dei costruttori prevalgono. Se osserviamo l’architettura contemporanea di Milano, è difficile evidenziare esempi virtuosi in questo senso. Il General Contractor tendenzialmente analizza lo spazio su cui costruire e vede una certa cubatura, una performatività definita e sulla base di questo genere di elementi decide cosa e come edificare. Mettere ai primi posti il legame fra l’architettura e l’ambiente circostante significa fare scelte urbanistiche precise da parte delle istituzioni in primo luogo.

Chi fa produzione culturale può potenzialmente porsi come intermediario fra le istituzioni e i cittadini e amplificare la voce di chi vive la città, credi sia possibile costruire questo genere di dialogo in un quartiere come Corvetto?

Questo quartiere senz’altro ha un alto potenziale, noi ci inseriamo come novità in un contesto in cui esistono già progetti culturali molto più radicati e consolidati e con i quali si crea un’occasione per fare rete. Il punto è che le nuove geometrie lavorative che noi rappresentiamo risultano spesso difficili da comprendere per il mondo istituzionale, con il quale diventa complesso dialogare. La compresenza di diverse realtà è un modo per dar vita ad un interlocutore strutturato, che possa interfacciarsi con le istituzioni da un lato e dall’altro ci permetta di provare ad avvicinarci anche alle fasce di lavoratori più tradizionali, che vivono in quest’area e che spesso sono costretti al lavoro nero, a intermittenza, irregolare, con le quali di base noi non condividiamo timori e preoccupazioni. Quello che ci piacerebbe costruire con la nostra progettualità è uno spazio sicuro e flessibile, capace di costruire e far germogliare una consapevolezza culturale a sfondo politico, che non sia esclusiva e autoreferenziale, ma che guardi soprattutto a chi sta fuori dalla nostra bolla. 

Hai parlato di attività utili a costruire un dialogo con il quartiere cosa intendi? Puoi fare un esempio?

Sì, nel tempo abbiamo fatto alcuni esperimenti aprendo lo spazio ad eventi ed iniziative di quartiere di piccole associazioni, a collaborazioni e rapporti di vicinato. Nel tempo ci piacerebbe essere capaci di strutturare delle attività più solide, che siano riferimento per uno scambio sul mondo del lavoro culturale e sulle trasformazioni della città. L’idea è quella di dare effettivamente voce a questo spazio, mettendolo a servizio del quartiere e degli abitanti della città. Vorremmo creare interazione con una comunità di operatori e cittadini, con le scuole e le realtà attive nel quartiere e nella città. Per farlo è necessario coinvolgere anche altri professionisti, colleghi e non. Naturalmente questo progetto implica che prima si sia raggiunta una stabilità e una certa forza interne all’associazione, condizione imprescindibile per poter poi costruire una programmazione solida.