Diego Perrone apre l’anno di De Carlo con una mostra intitolata Herbivorous Carnivorous, in contemporanea alla mostra Selfportrait nell’altra sua galleria, la newyorkese Casey Kaplan. Affascinato dall’imprevedibilità dei processi, dalla sperimentazione accanita, e dalla cooperazione con altri artisti, Diego ha prodotto negli ultimi mesi progetti e mostre diversissime: quella con Andrea Sala ha inaugurato lo spazio MEGA a Milano, mentre con Giuseppe Gabellone ha lanciato ad Artissima il primo numero di una rivista monumentale, Grasso.
ZERO: Come è nata la mostra da MEGA? Chi conoscevi dei tre fondatori, Davide, Giovanna o Delfino? E come ha funzionato la collaborazione così stretta con Andrea Sala?
DIEGO PERRONE: A me piace molto collaborare con altri artisti, soprattutto quando c’è una certa energia con cui poi si riesce a sviluppare una grande mole di lavoro. Condivido lo studio con Mario Airò e Stefano Dugnani. Con Christian Frosi abbiamo fatto un sacco di cose insieme, per esempio nel 2009 partimmo in viaggio per l’Italia alla ricerca di spazi artistici no profit – il progetto si chiamava Eroina –, e in seguito fummo chiamati da Francesco Manacorda, nel 2011 direttore di Artissima, a curare insieme a Renato Leotta Artissima Lido, una sorta di festival degli spazi indipendenti come Brown Project Space o Codalunga. Artissima Lido si sviluppava nelle vie del Quadrilatero, nei negozi di Porta Palazzo. Alcuni negozi diventavano un luoghi espositivi, i singoli spazi invitati avevano organizzato una mostra ciascuno. Per l’ultima edizione di Artissima, invece, con Giuseppe Gabellone e la cura di Alberto Salvadori ho lanciato il progetto Grasso, una rivista in formato gigante (3×2 metri) e in edizione limitata (100 copie per 12 numeri monografici).
Per la mostra da Mega, Unghia, in realtà il progetto era stato concepito da me e Andrea Sala insieme: siamo amici, ci vediamo spesso e abbiamo iniziato a immaginare una possibile collaborazione. Quando siamo riusciti a ottenere qualcosa di sperimentale, che fosse altro rispetto ai nostri singoli lavori, e che potesse essere mostrato, l’abbiamo proposto a Nicola Ricciardi, il quale si è rivolto a Davide Giannella e Delfino Sisto Legnani per capire se si poteva realizzare una mostra lì. Era una cosa che nessuno dei due aveva mai fatto prima, è stato divertente: abbiamo provato a emulsionare dei supporti di lattice, ci siamo allestiti una camera oscura in cantina – tutto molto “fai da te” – e abbiamo cominciato a disegnare a mano libera, sui supporti emulsionati, con un raggio laser e poi l’abbiamo sviluppato come si fa con la fotografia in bianco e nero. Il processo era quello della fotografia classica, ma il risultato era più un disegno, una texture, quasi un acquerello. Hai dei neri molto forti che si bruciano, i contorni sono come fuori fuoco.
È una cosa che infatti ricorda i primi esperimenti della fotografia.
Si, è un procedimento molto classico che ci ha consentito di sporcarci un po’ le mani. Il soggetto del disegno era un paraurti, che per noi è come un’unghia per la mano, è un oggetto di protezione. L’unghia della macchina poteva essere un paraurti. E l’abbiamo così ricopiato con questa tecnica fatta in cantina. Un’operazione a mano libera copiando le fotografie fatte da Delfino.
E invece queste mostre che inauguri adesso? Self Portrait da Casey Kaplan e Herbivorous Carnivorous da De Carlo.
Espongo una serie di sculture che sto realizzando già da qualche anno, sperimentando con un’azienda che si chiama Vetroricerca. Ero partito da sculture piccole, cercando di spingere all’estremo le possibilità offerte dal materiale, che è il vetro.
Dove sta l’azienda?
A Bolzano.
Per questo hai fatto poi la mostra a Museion?
Si, la mostra a Museion è stata un passaggio fondamentale, è stato qui che abbiamo capito che queste sculture sovradimensionate si potevano fare. Lavorare con l’azienda è stata una bella esperienza, perché si sono prestati con entusiasmo a sperimentare. Hanno modificato i loro strumenti e il loro modo di lavorare, e siamo arrivati al risultato che mi interessava. Anche loro non pensavano che fosse possibile, e ora che siamo riusciti a trovare un metodo e per entrambi, si aprono nuove possibilità, come per esempio collaborare alla realizzazione di opere pubbliche. Insomma, abbiamo trovato nuove potenzialità per il vetro e i miei galleristi hanno pensato che avesse senso, reputando queste sculture “mature”, fare un’unica produzione in modo che potessi lavorare con possibilità e budget più ampi. Questa sarà la prima volta che posso vederne più di due esemplari assieme in uno spazio.
Da queste immagini si intravedono degli elementi nuovi rispetto a quelle che hai esposto a Londra nel 2014?
Si, qui i soggetti sono trattori e pesci.
I pesci sono ricorrenti, penso ai grandi disegni con la biro rossa.
Queste opere sono come delle grandi teste trasparenti e i pesci mi piacciono in quanto soggetti di un paesaggio sottomarino. In questo caso saranno mostrati assieme a un altro tipo di paesaggio, quello rurale del trattore.
Quanto sono grandi queste sculture?
Sono grandi, alte 90 cm e pesano circa 150 kg. Stanno in forno per cinque settimane perché devono raffreddarsi molto lentamente altrimenti si spaccano.
Per questo parlavi di arte pubblica.
Esatto. Per essere in vetro sono particolarmente sovradimensionate. Il vetro manca di elasticità, per questo è difficile lavorarlo.
Perché c’è questa differenza nei titoli tra la mostra di Milano e quella di New York?
Secondo me ci sono due pubblici e contesti diversi, e due interpretazioni che possono avere le differenti culture su questo tipo di sculture. In Italia mi sembrava importante avere un titolo che introducesse il tema dell’alimentazione, pensando al lavoro che fa un trattore che rende fertile la terra, mentre i pesci sono carnivori, tutti quanti hanno a che fare con un paesaggio che sia di campagna o subacqueo. Mi piaceva l’idea di creare un dualismo, mentre in America volevo essere più secco, minimale.
Durante la lavorazione del vetro, sai già quale sarà il risultato formale?
No, ci sono delle variabili di imprevisto molto alte. Spesso viene bene, a volte viene male. Posso decidere le aree dove vanno i differenti vetri colorati, ma non come si mescolano. Queste opere hanno la stessa robustezza di una scultura di marmo in quanto sono piene al loro interno.
Quindi è un processo costoso?
Si, ma soprattutto lungo, per questo negli ultimi anni ho prodotto meno, ero totalmente concentrato su questo. Per queste due mostre ne abbiamo fatte tredici: ed è necessario pianificare nel corso del tempo moltissime cose, considerando gli imprevisti. È stato un privilegio> per me poterne produrre così tante, un impegno per l’azienda, e un impegno economico dalle gallerie.
Da quanto tempo lavori per Casey Kaplan e Massimo De Carlo?
Con Kaplan dal 2001, e con De Carlo prima.
Tu sei uno degli storici della galleria. Un superstite.
Forse perché sono stato fuori dall’Italia per un po’, ero come un virus latente che poi è tornato, ahah
Sarebbe bello se poi ti facessero fare la mostra anche a Hong Kong. Comunque, tornando a un po’ di tempo fa, mi ricordo di aver visto per la prima volta una tua opera tempo fa a casa di Stefano Chiodi, era una delle opere dei “buchi”.
Si, i Pensatori di buchi rappresentano il periodo in cui incominciai a lavorare con Casey Kaplan. Erano undici fotografie. Anche quello è stato un progetto abbastanza lungo: c’è voluto un anno tra scavi e fotografie.
Era tutto fatto a mano da te?
Si. È nato un po’ a caso, in una maniera zen. C’è chi cammina e c’è chi scava. Se l’avessi fatto fare da uno scavatore non avrei risolto il mio problema. Ho iniziato dalla disperazione di non avere un’idea, poi ho pensato che ci potessero essere delle foto; che queste foto potessero avere delle ottiche particolari; che quel posto lì potesse essere un set; che su quel set potessero comparire dei personaggi. Ho pensato che questi buchi pian piano dovessero avere una forma. Non sono scavati a caso, ma alcuni sono diagonali e così via… dovevano convivere tra di loro. Ho pensato alla terra che si doveva esportare e poteva essere anche lei parte di questa zona trivellata che è diventata una scultura.
Era nel tuo giardino?.
Era in un grosso orto ad Asti. D’inverno si doveva accendere del fuoco, c’era un freddo rigido. Noi ci fotografavamo nudi: avevamo preso delle cisterne di quelle di plastica per il vino, ci immergevamo in questa acqua calda e si facevano le foto nudi fumanti sulla terra. Ogni tanto si faceva una tappa foto, dopo magari quindici giorni di scavi. Veniva da qui un fotografo, e poi amici a fare da comparse. Quindi durante il lavoro di scavo c’era una dimensione solitaria, e poi arrivavano gli amici. E poi anche grandi feste.
Nudi!
Esatto, abbiamo fatto anche dei riti.
È interessante la processualità che c’è dietro anche questo progetto, come per le sculture in vetro.
Si, che veniva poco per volta. Non era un processo predefinito. A un certo punto magari notavo che sarebbe stato bello fare delle foto dall’alto, e costruivo un trabattello apposta. È stato un cantiere sia mentale che fisico per un annetto. Interessante era il paradosso della fisicità della terra e il vero soggetto, che era il vuoto interno di questi due buchi. E questo processo è stato filtrato dalla fotografia, che è un mezzo abbastanza astratto. Allora c’era ancora il negativo, avevo bisogno di tecnologia e di qualità perché le stampe dovevano essere grosse.
Come in tutti i tuoi lavori, c’è una forte ricerca della materia, che in questo caso non è resina, pelo, vetro, ma è terra.
Diciamo che allora non lo sapevo. Adesso, nelle ultime opere, c’è più maturità. Anche se in queste sculture noti la presenza fortemente monumentale, ma visiva. Sono molto pittoriche, quasi fragili. Meno materia e più colore. Il vetro è un materiale totalmente anti-scultoreo: non vedi la massa, non hai chiaro/scuro, non hai quella fisicità plastica della scultura.
In qualche modo l’imprevedibilità dei processi è una costante nel tuo lavoro, una passione che ti spinge a provare tecniche inesplorate, o di cui sei inesperto
Si. Ai tempi di Vicino a Torino muore un cane vecchio mi sono fatto aiutare da una persona che usava 3D Studio; ora come ora è un programma invecchiato, rispetto ai software di animazione che ci sono in giro. La persona con cui stavo lavorando conosceva il software in maniera naif, e quindi era un po come usare il martello e lo scalpello per lavorare dei file 3d, il risultato era un’opera quasi pittorica. Noi avevamo qualcosa di estremamente basico come la morte, da personalizzare.
Una domanda fondamentale per noi: come nascono i tuoi titoli? Li pensi per aiutare lo spettatore o per fuorviarlo? Nascono prima, o dopo che hai terminato il lavoro?
Quasi sempre poi. A volte mentre lo sto facendo. Però appunto, non sapendo come andrà a finire, il titolo arriva dopo. Diciamo che i titoli non spiegano l’opera, ma aggiungono un colore. Magari sono delle parole chiave che ho in mente nel momento in cui sto lavorando e che poi possono aggiungere qualcosa.
C’è una qualità letteraria, penso a Il merda, Il servo astuto…
È brutalmente copiato da Petrolio di Pasolini. L’avrei voluto chiamare Il merda il merda, sai tipo i Duran Duran Duran no? Per Il servo astuto mi interessava il ruolo da commedia dell’arte.
E poi altri più onirici, astratti come Una mucca senza faccia rotola nel cuore, o poetici Come suggestionati da quello che dietro rimane fermo
Era una mostra dove c’era il suono di una valanga. Tra l’altro l’aveva fatta Stefano. C’erano tipo una ventina di metri di tubi giganti che avevamo fatto con Stefano che andavano in pendenza su dei cavalletti, da questi tubi usciva il suono di una valanga, realizzata con dei musicisti: strumenti e suoni elettronici, una vera e propria composizione musicale.. Al fondo c’era la scultura Pendio piovoso frusta la lingua. Era letteralmente un pendio di una montagna che entrava in una bocca e il pelo doveva ricordare una pioggia in un paesaggio. Sono alcune parole chiave messe assieme. Come suggestionati invece era più poetico, ai tempi ero più leggero. È interessante, mi state facendo realizzare che io penso spesso al paesaggio. In quel caso il soggetto erano degli anziani, c’era qualcosa dietro le loro figure che era ancora più fermo rispetto a loro. I soggetti in primo piano con alle spalle questo paesaggio immobile, ma poi immobile era anche l’uomo. Erano scattate in campagna, il luogo della periferia, della tradizione. Un mondo quasi dogmatico, fermo.
Si dice sempre di te che il tuo immaginario è legato alla periferia, ma non nel senso urbano del termine. Una periferia più profonda, ancestrale, quasi archeologica. Anche le tue “orecchie”, ad esempio, ricordano dei fossili, c’è anche li un legame con la terra.
Si certo, ma per me quella è anche una scusa per iniziare una scultura. Penso che finalmente, nel caso dell’orecchio, ho trovato una forma facilmente interpretabile, che è fatta di pieni e vuoti. Che poi è qualcosa che si presta a fare in modo che la parte vuota si possa invertire con quella piena.
È un dispositivo, per dirla con Agamben
È un trucco. È un po’ barare. Infatti faccio parte di quel genere di artisti per cui fare arte è un po’ barare. Per esempio, quando ho fatto il remake di una scultura di Adolfo Wildt sono andato a prendere le misure, a fare le foto e lì mi sono reso conto che, oltre ad essere un profondo e sapiente conoscitore del marmo, era anche un illusionista. La sua opera è fatta anche di espedienti scultorei, alcune linee dritte per esempio sembravano curve.
Su questo rapporto tra pieno e vuoto mi viene in mente un lavoro che era rimasto impresso a tanti, quello della campana. L’avevi esposto anche in America.
La fusione della campana, si in America ne avevo fatte più piccole, erano tutte in vetro resina. Anche li avevo trovato un trucco: era un equilibrio interessante tra un processo di lavorazione vero – quello della fattura della campana – e l’espediente scultoreo. Cercando di rappresentare insieme i varie fasi di lavorazione della fusione di una campana, riuscivo a ottenere una forma scultorea che era sia plastica che aggressiva, violenta. Guardandola adesso ciò che avevo rappresentato, alla fine, era solo la sua pelle. Come se avessi fatto un calco del paesaggio che la circondava
Che cos’è che ti ha portato a Milano? Hai fatto Garutti, no?
Sono stato a Milano a studiare, ancora con Fabro. Poi c’è stata l’occupazione, la Pantera e sono andato a finire a Torino, poi a Bologna ho incontrato Garutti, sono tornato a Milano quando anche lui si è spostato e ci sono stato dieci anni. Poi sono andato a Berlino per otto o nove anni e ora sono tornato, già da sei anni. Quando sono andato a Berlino c’erano più o meno trenta gallerie, ora ce ne sono seicento. Erano pochi i musei d’arte contemporanea, c’era il KW, l’Hamburger Banhof. Quando sono andato via era il momento in cui stavano arrivando gli americani.
Tra quando sei partito e ora che sei tornato hai trovato differenze a Milano? Perché te ne sei andato via da Berlino?
Ma perché mi ero rotto le palle. E secondo me a Milano è l’unico posto in Italia dove si può stare, o in alternativa la campagna. Torino, per esempio, è una città molto piccola. Quando ci ho abitato per un’anno la FIAT era giá in crisi e la cittá era praticamente ferma. Non ci sono stati gli anni Ottanta che ci sono stati qui. È un po’ che non ci vado a Torino, non ha funzionato quel rilancio culturale. Anche a Milano, ultimamente, mi pare non ci sia stato un grande ricambio generazionale.
Come vedi questo proliferare di spazi indipendenti e giovani?
È positivo come esperimento, ma non è un buonissimo segnale, significa anche che c’è una grande crisi delle gallerie. C’è bisogno degli spazi off, solo che molti ancora non hanno un’identità.
E tra gli spazi più istituzionali, quelli grandi, in generale quali frequenti
Negli ultimi due anni non ho seguito molto. Mi sembra che l’Hangar Bicocca abbia fatto un ottimo lavoro; anche solo l’idea di tenere aperto fino a mezzanotte ha dato un plus valore. Fondazione Prada, mi sembra che stiano facendo un buon lavoro, la mostra di Kienholz era bella.
FM lo conosci? Ai Frigoriferi Milanesi.
No, non mi interessa molto. Ai Frigoriferi però abbiamo avuto lo studio per tanto tempo, molto grande.
Dove abiti e dove hai abitato a Milano?
All’inizio stavo in Piazzale Istria, poi ho abitato a Villa San Giovanni, e poi, per un periodo, all’Isola. Vivevo in via Cola Montano in casa di Simone Berti, quando lui non c’era. Poi sono stato in via Borsieri. Ora ci torno spesso il sabato quando c’è il mercatino, sotto al bosco verticale. Sono buone le verdure. Adesso abito in Città Studi, ma il sabato vado ancora la. Lo conosci?
Mi affatica andare ai mercatini. Quindi abiti verso il Bar Basso?
Si, è un quartiere rilassante.
Raccontaci dove vai a mangiare, e a bere?
Oddio, ultimamente ho fatto il monaco, non esco mai. Portatemi voi.