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Antonio Marras

Nulla Dies Sine Linea è il titolo della mostra a cura di FAM che inaugura il 21 ottobre in Triennale

Scritto da Stefania Seoni il 21 ottobre 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

In tutta l’opera di Antonio Marras c’è un istinto per la narrazione, per il racconto, per la memoria, per la messa in scena di tipo teatrale. La sua moda è uno straordinario potente veicolo espressivo fatto di ricordi, innamoramenti di tipo cinematografico, letterario, artistico, dialoghi a ritmo onirico e sognante distillati dalla sua personale visione. Una poetica emozionale, una mitologia che riaffiora nelle sue incursioni artistiche: un mondo di immagini, di collage, di scritture, di installazioni e messe in scena che portano lo spettatore allo stupore all’emozione al trasporto.
Inaugura il 21 Ottobre alla Triennale di Milano Nulla dies sine linea, la prima personale monografica dell’artista Antonio Marras, curata da Francesca Alfano Miglietti. In un modo bizzarro o forse logico ho pensato Jean Cocteau e Antonio Marras e ho ricordato queste parole in una sua lettera del 1939: «Ero in quell’età assurda in cui ci si crede poeti e avvertivo in Diaghilev un’educata resistenza. Lo interrogai: “Stupiscimi, mi rispose, aspetterò che tu mi stupisca”. Quella frase mi salvò da una carriera piena di brio. Capii molto presto che non si stupisce un Diaghilev in quindici giorni. Da quel momento in poi, decisi di morire e di rivivere (…) Jean Cocteau».
Stupiscimi Antonio, aspetterò che tu mi stupisca!

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ZERO: Il 22 Ottobre alla Triennale di Milano aprirà Nulla dies sine linea, la prima grande retrospettiva dedicata ai tuoi progetti artistici, come ci si sente?
Marras:
Non mi sento, faccio. Nel senso che non penso, sono solo concentrato nel portare a termine questa impresa ciclopica. Per ora, mi preoccupo dell’immediato. Terminare l’allestimento della mostra. Con Paolo, la FAM, Daniela, Tonino e pochi assistenti selezionati ho ripreso e ridato vita a lavori che mi hanno accompagnato durante tutti questi anni.
Ho “rispolverato” taccuini, agende, quaderni, foto, disegni, quadri, sculture, installazioni che avevo accantonato, rinchiuso in scatole e cantine. Sono tutti tornati a nuova vita e all’interno della mostra hanno trovato il loro posto e il loro perché.

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Il tuo lavoro come fashion designer ha uno stretto legame con la narrativa,con il racconto; le tue sfilate sono “piccoli fragilissimi film”, le tue collezioni rimaneggiamenti poetici e visionari che attingono da arte, cinema, letteratura, teatro, danza, per entrare a far parte di un universo unico, il tuo, un universo sentimentale e sedimentato, che trasporta, evoca, ci racconta.
Ti ritrovi in questa visione poetica?

È una visione poetica? È una visione, la mia.
Non faccio distinzioni tra moda, arte, cinema ,danza, letteratura, teatro. Tra cultura “alta” e cultura popolare. Per me sono un tutt’uno. Amo la contaminazione, la variazione e penso che solo dalle relazioni fra le arti possano nascere strade nuove. Non esiste separazione tra le arti. Io, poi, ho la fortuna di fare un lavoro che mi permette le commistioni più impensate. Dalla moda non faccio che sconfinare in altri ambiti. Non faccio alcuna distinzione, una delle mie caratteristiche è proprio il mescolare, mettere insieme, invadere e scoprirne gli effetti. Una semplice lettura dei titoli delle mie sfilate rivela il mio mondo,le mie donne, in apparenza così lontane tra di loro, in realtà tutte forti, intelligenti, creative e indipendenti.
La sfilata (piccoli fragilissimi film, bella definizione. Di chi è?) è il momento topico, il coronamento di una fatica bellissima. Rappresenta l’acme di tutto il tuo lavoro.
Per me la sfilata riassume tutto quello che avrei voluto fare: regia, scenografia, coreografia, musica, costumi.
Con la sfilata mi sono costruito un palcoscenico dove rappresentare e far vivere il mio mondo. Ogni sfilata è l’incontro di linguaggi differenti che generano cortocircuiti.
Si tratta di realizzare un cortometraggio dove tutto è prioritario ed importante per finalizzare un concetto, un’idea.

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Il tuo spazio Nonostantemarras è una vera e propria fucina culturale con una programmazione costante di mostre, incontri letterari, presentazioni e performance. Ce ne puoi raccontare la nascita e le evoluzioni?
Nonostantemarras è uno spazio aperto, uno spazio espositivo, una scelta alternativa rispetto al tradizionale concept store del centro di Milano. Un luogo riservato e allo stesso tempo accogliente.
Mi è sempre piaciuta, da piccolo, l’idea di avere uno spazio che non fosse la mia stanza o la mia casa, uno spazio allargato e privato, riservato, in cui stare con gli amici e scatenare le nostre energie. Allora era il garage, la soffitta, un piccolo fienile in campagna. Da grande, un concept store come spazio polifunzionale, luogo non esclusivamente legato all’esposizione e alla vendita, ma luogo in cui si sta bene, riservato e aperto, accogliente, “ospitante” nel senso che questa parola aveva nell’antica Grecia, in Sardegna, nel Mediterraneo, dove lo straniero, l’ospite, era sacro ed era considerato un delitto violare le leggi dell’ospitalità. Nonostantemarras è un luogo in cui ci si muove liberamente, come in un abito. L’abito è il primo spazio che ha l’uomo, difesa, protezione, sicurezza.
Lo spazio si amplia, poi, nella stanza, nella casa, nel quartiere, nella città, nell’isola, nel mondo. Come direbbe Tognazzi nel film di Alberto Lattuada “Venga a prendere il caffè da noi”, Nonostante ha le 3 C che un uomo deve avere per poter star bene: carezze, caldo, comodo. Una zona di sicurezza, calda, segreta, raccolta, lontana dal caos quotidiano ma non chiusa agli altri; al contrario, un luogo che vive di incontri assolutamente ossimorici.
In questo spazio oltre agli abiti e agli accessori si trovano libri, oggetti ed opere d’arte: più che un negozio è un luogo di incontro, di ospitalità.
L’ospitalità dei sardi è ormai diventata un luogo comune. Molto spesso è stata mal compresa o fraintesa. In realtà, secondo me, si tratta di un concetto profondo e molto complesso, le cui radici affondano nei secoli, nei millenni, in tutta la cultura mediterranea. Ospite è chi ospita e chi è ospitato; lo straniero,il forestiero, l’estraneo che chiede accoglienza, rifugio, protezione, e anche il padrone di casa che accoglie, dà cibo, rifugio non certo per lucro ma per amicizia, generosità.
Il luogo si chiama Nonostantemarras perché è stato fortemente voluto da Patrizia con la complicità di Paolo Bazzani e la FAM nonostante io fossi fieramente contrario.
È stato inaugurato nel 2013 con la rassegna 1313 e da allora si susseguono eventi,mostre, performance, presentazioni di libri e tanto altro.

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Credi di aver instaurato un rapporto speciale con Milano?
Certo,a Milano mi sento a casa. Ciò non significa che conosca strade e che riesca ad orientarmi ma questo mi succede anche ad Alghero dove trovo difficile raggiungere via Sant’Agostino da casa mia.
Ormai sono molti gli stranieri a Milano, e questo ha realmente cambiato la rigidità e la regolarità, a volte sterile, della metropoli lombarda. E così a Milano sono, finalmente, emerse le passioni che animano i soggetti di una nuova produzione, requisito necessario di ogni realtà che vuole veramente cambiare.
A Milano ho trovato quella mescolanza e ospitalità che nasce dalla capacità di accogliere nel proprio territorio gli stranieri. Un universo di territori e di flussi. La città moderna nel suo divenire metropoli diventa territorio etereogeneo.
E io riscopro il piacere baudelairiano di perdermi tra la folla della metropoli, la gioia profonda e silenziosa di osservare.

Ci sono dei luoghi che ami particolarmente in questa città ,“la nebbiosa”, citando il libro di Pasolini?
La nebbia a me piace tantissimo, ça va sans dire, considerato il mio animo malinconico.
A Milano io abito vicino ai giardini e quando porto Pierivo a passeggiare trovo bellissimo aggirarmi tra quell’aria spessa e confusa che certe volte avvolge Milano la mattina presto o alla sera verso l’imbrunire. Sembra di vivere in un film. Milano mi piace perché è discreta, ha tanto da offrire ma non lo dimostra. Sta a te scoprirla e apprezzarla. Non sei sovrastato da Milano ma la scopri piano piano, solo se lo vuoi. A me piace la mia zona. Saluto e mi attardo con i miei vicini come non mi è mai successo ad Alghero dove vivo da quando sono nato.
È un quartiere della terza età. Pieno di anziani e di cani.
Ognuno ha una storia da raccontare.Pierivo è innamorato di Lola,una barboncina molto frizzante.
Poi c’è quello recuperato da un sequestro,i cani che provenivano illegalmente dall’est. C’è un antipatico di boxer che attacca tutti. C’è un cocker malato che viene portato in giro in carrozzella. Ognuno con il suo viaggio,ognuno diverso…

Arte e moda quanto sono vicine e quanto sono lontane per te?
Le mie incursioni nell’arte si fanno sempre più frequenti. Nascono da una vera necessità, un’esigenza, un bisogno incontrollabile che mi spinge a invadere altri campi. Fanno parte di me. Del resto, da sempre, per chi lavora nel campo della moda, l’arte è stata fonte privilegiata di ispirazione e vi è uno stretto confronto dialettico tra mondo dell’arte e mondo della moda. Molti parlano di abolizione dei confini tra i due territori, altri discutono se sia l’arte ad ispirare la moda o la moda l’arte. È un lungo discorso: si tratta di due realtà che s’incontrano e scontrano, alimentandosi reciprocamente.
È nell’arte che cerco, scruto indago, mi perdo ed è l’arte che mi sorprende sempre. Sperimentazione, nuove materie, nuovi linguaggi: telai,libri, tele cucite, pani, terrecotte, libri cuciti, mappe ricamate, opere di rara bellezza. Con lei ho un rapporto speciale, una sintonia di interessi e di idee che continua a vivere, immutato, nonostante l’assenza ricordo.

È in corso fino al 5 di novembre al Centro San Fedele di Milano una mostra su Maria Lai, artista sarda a cui sei particolarmente legato, ci puoi raccontare com’è nato il vostro legame?
L’incontro con Maria Lai. Una vera e propria svolta, che ha coinciso con la mia prima collezione.
Con lei ho sempre avuto un rapporto speciale, una sintonia di interessi e di idee che continuano a vivere, immutati. Un dialogo ininterrotto. Una volta le dissi che avevo copiato un suo disegno. Mi rispose: “Fare arte è un continuo rubare. Non preoccuparti, io rubo dappertutto. Nel momento in cui la rubi, l’opera diventa tua”.
Maria Lai è stata una presenza stra-ordinaria nella mia vita. Una vagabonda.
La jana che tiene per mano il sole e l’ombra. Cuce e ci lega alle favole, ai sogni e all’infinito. Dice che le montagne non sono tanto terribili se, oltre ai precipizi e ai lupi, ci sono anche le nuvole.
L’incontro con Maria ha segnato il mio approccio con l’arte e non solo…
Ha dato spazio alle mie visioni. Ci siamo divertiti a confondere spazi e tempi, a tessere fili e trame. Per una volta ha lasciato la sua giacca e con il suo maglione nero a collo alto ha indossato un prezioso kimono, fatto apposta per lei.
Mi ha dato il coraggio di esplorare me stesso; mi ha traghettato verso un universo che mi affascinava e mi faceva paura.
“Ti ho lasciato bambino e ti ritrovo artista”, mi ha detto un giorno.
Conservo gelosamente questa frase dentro di me.
Lei mi ha dato la forza di parlare attraverso le immagini.

Gli oggetti nel tuo spazio, ma soprattutto nelle tue installazioni acquistano un senso nuovo, nuova anima nella sovrapposizione nella serialità , negli allestimenti teatrali .
Credi di essere più un feticista o un accumulatore seriale?

Sono un accumulatore seriale.
Tra oggetti trovati, che amano raccontare le loro storie per chi sa ascoltare, mi piace vivere. Oggetti in cui si legge la voglia di osare, naturalmente e liberamente; di avere il coraggio di provare, sperimentare, trasgredire le regole, violare i codici, preferire alla regola lo scarto dalla norma, la devianza con un particolare anche piccolo, un punto, una virgola. Non temere che l’eccesso e l’eccentricità trionfino sulla piattezza e sulla banalità del vestire comune. Non adeguarsi ai dettami imperanti e cercare lo scarto, il contrasto, l’errore, il varco.
Raccolgo, ammucchio, combino tutto quello che trovo.
Mi piace rovistare nei ricordi, frugare nell’apparente caos di un rigattiere per trovare dei raccordi: quadri per cui qualcuno ha posato, un cannocchiale, un mappamondo, due bijou, una rosa. Ciarpame che, un tempo, era bello e ora è consunto.
Pensare a chi può averli usati, perché sono stati abbandonati come cani lasciati sulla strada. Oggetti che qualcuno ha forse amato ora giacciono lì, senza un padrone, senza funzione, senza storia o stato.
Per me è istintivo, innato, naturale, non gettare niente, riciclare, conservare tutto.
Mi coinvolge totalmente ciò che sa di ombra, di passato. Il mistero di vite rubate, di strade non più usate, di case abbandonate.
In particolare l’oggetto usato, logoro, dimenticato, buttato via, inutile e sporco.
Raccolgo cose e spesso cani. Portano con sè frammenti di quel che sono stati e parlano. A me piace ascoltare. Sono cose e animali che vogliono vivere ancora.

Di Milano si dice che sia una città senza odori. Per te che vieni dal mare, che odore ha Milano?
D’istinto potrei citare Gregory Corso che scriveva in Poems from Berlin:
«Ogni città ha il suo odore.
New York sa di scarpe nuove Parigi sa di cinematografo
Londra sa di carcere correzionale
Stoccolma di biancheria lavata Atene di terra battuta Barcellona di rosso Amsterdam di budino di mele
Venezia di umanità
E Berlino?
Non conosco l’odore di Berlino»
Aggiungerei: Milano sa di pulizia di strade e di pipì di cane.