Una volta ho fatto una breve spedizione con Ramak Fazel nel Tirolo per un servizio su Domus su uno specialissimo produttore di cemento. Tutti mi dicevano con uno sguardo brillante: ah, vai a fare una Ramakkata! Non sapevo che cosa aspettarmi, e poi constatai che qualsiasi itinerario con Ramak assume una sfumatura surreale. Basta leggere il ritratto che ne fa Giorgio Vasta in Absolutely Nothing, un libro su una Ramakkata al cubo a cui mi sarebbe piaciuto immensamente partecipare, un giro nei deserti statunitensi dell’improbabile trio Ramak-Giorgio Vasta-Giovanna Silva in veste di editore. Ingegnere di formazione negli USA, Ramak passa a Milano 15 anni come una specie di celebrità misteriosa, dal ’94 al 2009. Anni in cui, tra le altre cose, fotografa il mondo del design in un modo completamente anomalo, indagando i luoghi e i processi della produzione. Poi torna negli USA, dove insegna al San Francisco Art Institute e continua a fare progetti artistici a Claremont – nei sobborghi di Los Angeles dove abita – e in giro per il mondo. MEGA lo ha invitato per il Salone del Mobile 2017 a fare una mostra-performance.
Puoi già raccontare cosa farai da MEGA?
Stiamo organizzando una performance in cui verrà costruito nello spazio della galleria uno sgabello a tre piedi. Non uno sgabello qualsiasi, ma quello che ho progettato e (fisicamente) realizzato nel mio garage a Claremont, CA, scegliendo dei legni usati per l’edilizia, il multistrato e il famoso two-by-four, il legno delle Balloon-frame-houses, la tipologia base dei suburbia americani. Le macchine che utilizzo per lavorarli sono basiche, e le ho avute in regalo per la festa del papà. Ogni giorno per otto ore nella vetrina di MEGA produrrò 5 sgabelli.
Che significa per la festa del papà? Tuo figlio ti voleva falegname?
È una tradizione ineludibile in America, ogni padre deve avere una sega nel garage e ogni madre una macchina del pane in cucina
Quindi non avevi già una particolare attitudine per la costruzione di oggetti?
No, disegnavo. Alle scuole medie in effetti facevamo dei corsi di falegnameria, e mi piaceva molto, ma poi non avevo mai più toccato un attrezzo. Ora sto recuperando quel piacere.
E anche quando negli anni milanesi hai frequentato così intensamente Enzo Mari non ti era mai venuta la tentazione di autocostruirti dei mobili?
No, mai. Ho assorbito tutto quello che potevo sul design suo e degli altri grandi e meno grandi che ho frequentato, ma non mi ha sfiorato, allora, il desiderio di fare. Però questo progetto risponde a tutta una serie di input che ho avuto tornando a vivere negli Stati Uniti, e uno di questi è l’isolamento sociale. Lo sgabello mi ha consentito di tessere nuovi rapporti sociali, intercettare competenze di persone che altrimenti non avrei mai incrociato. Persone che mi davano informazioni su come procedere. In Italia il rapporto tra il produttore e il progettista è una relazione molto evoluta, mentre in USA, dove manca questo genere di cultura e anche di indotto, mi sono dovuto inventare un processo che mi permettesse di cercare informazioni al grande magazzino vicino casa. Dovevo andare alla corsia 33 per chiedere a un certo signore che lama usare per fare un certo taglio.
In effetti però in quegli immensi negozi specializzati – che in Italia non ci sogniamo neanche – ci sono moltissimi addetti che danno spiegazioni a volontà, no?
Si, sono persone che magari fanno queste cose a casa loro, e hanno sviluppato un certo know-how, e vengono assunti proprio in virtù della disponibilità a condividere le conoscenze che hanno acquisito. Sono molto collaborativi, e grazie alle loro indicazioni e a un esercizio di mesi ho lentamente acquisito a mia volta il know-how necessario.
Come siete arrivati, tu e quelli di MEGA – Giovanna, Delfino e Davide – a concepire questa performance dello sgabello?
Mah, mentre discutevamo è emersa la foto di mio figlio con lo sgabello e si sono incuriositi. Erano molto interessati da questa praxis non fotografica.
Quindi l’avevi già fatto, eri già dentro il processo?
Si, tutto era partito dal mio interesse per il materiale, questo legno comunissimo, chiamato dimensional lumber. Ero ossessionato dal pensiero di come avrei potuto trasformarlo in uno sgabello-tavolino a tre piedi. E poi galleria Laurel Doody a Los Angeles mi ha commissionato un’edizione di sette sgabelli, per farne una mostra.
Tutti uguali, una serie? Non una collezione di varianti
Si. Ovviamente non sono perfettamente uguali, perché sono più arts and crafts che altro, assorbono imperfezioni e differenze.
Qual è stata la cosa più difficile da imparare o il problema più complesso?
Interessante che me lo chiedi. A un certo punto ho scoperto che il legno industriale, che io credevo standard, non è perfettamente uniforme nelle misure, ma presenta delle piccole variazioni. Quindi ho dovuto rispondere all’imperfezione dello standard. Alla fine lo stesso sgabello è un po’ precario, non è ergonomicamente perfetto. Sedercisi presenta una minima percentuale di rischio.
Ma soprattutto lo sgabello è stato per me uno strumento per socializzare, creare piccoli legami. È la cosa cruciale.
Spiegami meglio la questione dell’isolamento: è stato traumetico in un certo senso per te, dopo la vita sociale frenetica a Milano, trasferirti nei sobborghi di Los Angeles?
Si, dopo 15 anni milanesi è stato difficilissimo affrontare l’isolamento imposto dai suburbia californiani. In generale la nostra condizione postmoderna ha sciolto una serie di pratiche collaborative, di lavoro fatto veramente insieme, guardandosi in faccia. Ma i suburbia sono bedroom communities, la gente ci vive per lavorare altrove, si reggono su una minuscola infrastruttura di servizi – forze dell’ordine, scuole, qualche negozio e ristorante di catena – ma non hanno industrie o attività commerciali. Per qualsiasi cosa devi fare chilometri di traffico, e quando torni ha casa non hai più voglia né la possibilità reale di vedere nessuno che non sia la tua famiglia.
Ma tu mi sembri molto attivo nel tenere i contatti via skype, mail, no?
Si ma non ti nutrono. Ho bisogno dei baci degli amici. Ho ricevuto più baci e abbracci ieri sera in una serata qua a Milano che in un anno a Claremont. Los Angeles stessa è come un patchwork, fatta di pezzi affiancati, New York è più simile alle città europee, i fili si intrecciano, diventano una trama.
Insomma, il progetto dello sgabello non è solo un processo di costruzione formale, è anche e soprattutto la costruzione di un sistema sociale. Un oggetto trasformativo, terapeutico: potremmo definirlo Soul Craft.
È per questo quindi che da MEGA non esponi lo sgabello ma te che lavori allo sgabello, per avere nuovi feedback, costruire nuovi legami?
Si, spero che passino nuove persone e mi diano nuovi consigli, magari posso introdurre nuove modifiche. Anche le mie capacità si modificano in questa specie di lunga performance: all’inizio sarò più lento, poi probabilmente diventerò più veloce a finire un pezzo. E poi un’altra cosa che mi piace moltissimo è che lo spazio, prima di diventare lo studio di Delfino e la galleria MEGA, era una falegnameria, e così io ripristino la funzione originaria. E ancora, gli sgabelli saranno venduti a un prezzo stabilito applicando i classici moltiplicatori dell’universo design, calcolando i costi dei materiali e delle lavorazioni.
Farai altre cose a Milano?
La Milan Unit forse sarà ospitata per un anno a Viasaterna. È un distillato di tutto il materiale della mia vita a Milano dal 1994 a 2009. Non solo le fotografie, anche le cose effimere: un patchwork di miniarchivi dei designer che ho seguito in quegli anni, come Enzo Mari, Domus, documenti fiscali, una selezione di dieci libri, dei lavori regalati da amici.
E ora dove sta?
In un magazzino.
Chi ti ha aiutato a metterlo insieme, a fare la selezione?
Amici, collaboratori. È anche un percorso artistico professionale di un fotografo che ha lavorato in quegli anni, e per scelta è molto evidente la materialità della fotografia: quelle stampe non sono immagini, sono oggetti.
Quindi tu hai un archivio importantissimo, un pezzo fondamentale della tua vita, a Milano. E se a un certo punto ti serve qualcosa devi tornare qua.
Si, e non solo io. Può andarci anche qualcun altro. Per esempio Joseph Grima poco tempo fa voleva regalare una mia stampa a qualcuno ed è andato a sbirciare per individuare quello che voleva.
La mostra su di te che Domus ha organizzato al Salone 2013 era tratta dalla Milan Unit?
Era una parte della Milan Unit, solo quella dell’universo del design.
Un’altra considerazione sullo sgabello: io non sono un designer, o un’architetto, ma un’ingegnere di formazione. Secondo la classica formulazione di Enzo Mari in Autoprogettazione?, tutti possono imparare ad assemblare dei pezzi di legno per costruire un tavolo: ma il progetto era suo, era lui il pilota. La mia invece non è un’autocostruzione, è autoprogettazione. I miei amici designer mi contestano (almeno alcuni), invitandomi a continuare in quello che so fare, cioè il fotografo. Ma se c’è una cosa che la frequentazione con il design mi ha insegnato è invece che ho il permesso di modificare il mio ambiente, ho capito molte cose su come progettare cose fuori dalla mia comfort zone.
Beh, interessante. Non su tutti la frequentazione del design produce un effetto così liberatorio. Alcuni, al contrario, ne escono inibiti.
Per me è stata una grande lezione durata 15 anni.
Guardando le tue foto si legge una forte fascinazione per la produzione, per la fabbrica, per quella particolare fase del processo di realizzazione degli oggetti che è la trasformazione del materiale grezzo, le lavorazioni.
Ho potuto avere accesso a quell’universo lavorando con Flos: loro inizialmente mi chiedevano di fotografare gli oggetti ambientati in un contesto pulito a scopo commerciale, ma lentamente introducevo degli elementi sporchi, e loro mi lasciavano sperimentare.
Dopo un po’, a mano a mano che la mia comprensione del mondo del design aumentava, ho iniziato a chiedere a Piero Gandini di farmi vedere i luoghi dove venivano costruite le lampade, di farmi incontrare i terzisti. E lui non solo con grande gentilezza me li faceva incontrare, ma mi pagava anche il lavoro, nonostante fosse un progetto più mio che suo e spesso le foto non avessero una leva commerciale.
Come verrà rappresentato fotograficamente il lavoro dello sgabello?
Questa è una cosa che sveleremo all’ultimo momento
Sarà Delfino a occuparsene?
Io tifo per Davide. Dobbiamo spingere anche lui fuori della sua comfort zone.
Quando ho saputo che facevi la mostra da MEGA, nello studio di Delfino, mi è sembrato molto appropriato, perché in effetti lui oggi ha una presenza nel mondo del design simile a quella che avevi tu
Si, è vero, e in più mi piace perché è conflittuale, che è una cosa fondamentale. I conflitti generano pensiero. Voglio che il titolo della mostra contenga la parola struggle, conflitto, perché è di questo che parla: conflitto esistenziale, sociale, economico. La mia compagna Mellissa mi contesta sempre il fatto che io passo tanto tempo nel garage a fare questo “dumb stool”, che non è certo il supercomputer del futuro, il progetto che rivoluzionerà il mondo secondo i miti della Silicon Valley. Il mondo può fare a meno di un altro sgabello. Ma lo sgabello è una presa di posizione, uno spazio di riflessione. Ho scelto il modello a tre gambe non solo perché è un archetipo, ma anche perché sono legato alla forma del triangolo. Il mio punto di partenza è stato il triangolo perfetto 30°-60°-90°, una forma semplice che risulta familiare anche a un bambino. Poi i miei amici mi criticano, dicono che non è risolto, che non è uno Jasper Morrison.
Senti Ramak, mi sembra chiaro che questo progetto non è una cosa piccola, un evento per una singola occasione, ma un punto di arrivo, un’azione lunghissima che condensa una serie di pensieri e di vissuti stratificati nella tua mente. Ma non è una svolta definitiva, non hai abbandonato la fotografia, vero?
No, io insegno fotografia al San Francisco Art Institute, una scuola bellissima, antica, ancora divisa nelle discipline classiche. E poi faccio progetti, come quello del libro Humboldt. Ma la fotografia è sempre stato un mezzo in grado di insegnarmi cose, sul mondo e su di me. È stata molto rivelatrice. Non sono più la stessa persona che ero a 25 anni, e ora cerco delle cose che la fotografia non può più darmi. La fotografia è in movimento: sono ancora interessato a utilizzarla come medium, ma in modo diverso.
Volevo chiederti una cosa: come è stato per te leggerti in veste di personaggio nel libro di Giorgio Vasta, Absolutely Nothing? Come hai vissuto una stilizzazione così potente delle vostre persone e del vostro viaggio?
È stato molto istruttivo: essendo stato così vicino a Giorgio e Giovanna, e leggendo poi le prime stesure, ho capito che Giorgio ha giocato molto con la forma del racconto e dell’itinerario e mi ha fatto guardare in un altro modo anche alla fotografia. Ho capito che le fotografia non doveva essere necessariamente un racconto accurato, ma si poteva permettere dei salti logici, degli spostamenti di senso. Ho sentito di avere ricevuto da Giorgio un’attenzione straordinaria. C’erano dei periodi, dopo il viaggio e durante la sua stesura, in cui mi mandava dieci messaggi al giorno per mettere a fuoco dei dettagli sul viaggio che mi sembravano assolutemente superflui, ma che gli servivano per dare forma al racconto. Perciò ho avvertito questo processo non come una deformazione caratteriale, ma come una modellazione artistica.
Si, lo racconta anche nel libro, nel periodo di “postproduzione” vi sentivate moltissimo
Alle volte era anche faticoso, ma poi per diversi mesi non ci sentivamo perché lui era concentrato a lavorare da solo. È nata un’amicizia, quasi una fratellanza, legata al viaggio: anche al tratto che poi abbiamo fatto da soli, io e lui, al ritorno da Houston verso New York.
Il trattamento letterario che ho ricevuto è un gesto di affetto, seguito all’intensità del viaggio.
E perché avete deciso di stampare le foto così piccole?
Volevo che fossero un’appendice, un afterthought, qualcosa di separato. Sono stampate benissimo, su bella carta, ma mi piaceva che fossero come dei provini. Sarebbero comunque state piccole, il libro è piccolo: allora aveva più senso che fossero molto piccole, small is the new big.