Piedi che battono sulla sabbia. Nuvole di polvere, una nebbia ocra smorta che copre i corpi, ne nasconde per lunghi istanti i tratti estatici. Arti e membra che tremano, spuntano contorte da una trance vorticosa, un mulinello ossessivo che ne eleva i caratteri. I tamburi incedono roboanti, mentre il suono martellante delle chitarre si unisce in dissonanza alla cavalcata, creando un rito ancestrale cacofonico, un Banga tunisino con scaglie metalliche no wave e post-industrial.
Se quest’orgia di sangue, sudore e suono primordiale vi sembra composta di sole energie contrastanti, vi sbagliate – almeno in parte. È grazie al ritmo intenso e ripetitivo, al canto belluino e antifonale che le antiche ritualità adorcistiche del Mediterraneo integravano, con conflitto e gioiosa accettazione, il demone. Lasciate che gli Ifriqiyya Electrique vi posseggano, liberate i movimenti dagli estetismi vuoti e di maniera, riabbraciate il „Caos“.
Geschrieben von Francesco Esposito