Flavio Giurato è l’antitesi di buona parte del cantautorato contemporaneo nostrano. Nel parlare dell’attualità non vuole tanto essere generazionale quanto universale. Non risulta quasi mai episodico e immediato, ma tende a sviscerare ogni argomento che affronta, prediligendo un labor limae che sfocia in atipici concept album. Non è quasi mai citazionista o autoreferenziale, per quanto si ritrovi a rielaborare suoi stessi pezzi, come un pittore che torna più volte su un determinato soggetto.
A ben vedere Flavio Giurato è un unicum incatalogabile. La sua produzione è frammentata nel tempo, nei suoi arrangiamenti alterna parti acustiche a lampi elettrificati. Nel suo flusso di coscienza sembra non sprecare mai nemmeno una parola. Parte da un hummus culturale romano per poi utilizzare dialetti diversi o cambiare direttamente lingua. Un certo gusto per il bozzettismo non gli impedisce di approdare a composizioni dal minutaggio elevato.
Questa sua „anarchia dimessa“ ricorda forse soltanto certe pagine di Paolo Conte o Ivan Graziani: come questi due outsider della canzone italiana, anche lui ha forse raccolto meno di quanto avrebbe meritato. C’è l’exploit del capolavoro „Il tuffatore“, certo, ma ci sono anche otto dischi di cui sarebbe bene recuperare ogni secondo. L’ultimo si intitola „Le promesse del mondo“ e affronta il tema della migrazione: come sempre, da una prospettiva diversa dal solito, per aprire nuovi orizzonti del pensiero.
Geschrieben von Lorenzo Giannetti