Passeggiando questa primavera tra le strade di Milano vi sareste potuti imbattere in un opera monumentale che ha coinvolto i due caselli daziari di Porta Venezia, ricoperti da cima a fondo con un patchwork di sacchi di juta. Un’operazione che ricorda molto da vicino il lavori di Christo, ma che in realtà si discosta per diversi aspetti.
I colori sgargianti o il bianco candido, la ricerca dell’uniformità e della consonanza con il paesaggio circostanze cedono il passo alla disomogeneità, alla frizione, al colore scuro del lavoro grezzo e terrigeno, alla disuguaglianza e allo sfruttamento. Questi sacchi, cuciti assieme spesso da migranti, sono infatti realizzati a basso costo in Asia e giungono nel Ghana di Mahama per essere riempiti di cacao e poi rispediti in tutto il mondo.
Più che pensieri post coloniali quindi, una riflessione attorno a un colonialismo che non è mai finito e che in questa mostra si ripresenta sotto forma di vecchie macchine da cucire (cadaveri del Capitalismo); di lavoratori del mercato Agbogbloshie di Accra, la più grande discarica di rifiuti al mondo; di vecchie mappe inglesi con i tracciati della ferrovia; di tatuaggi sulle braccia delle lavoratrici, che scrivono sulla pelle il nome dei propri cari e dei propri contatti in caso di incidenti gravi sul lavoro. Un piccolo grande pugno nello stomaco.
Geschrieben von Nicola Gerundino