Un sottotesto importante per una rassegna che mai come quest’anno intende abbracciare l’attualità, quella socio-politica e quella espressamente artistica. Nessun confine – migrazione e integrazione: quale miglior luogo, per inneggiare alla globalità, di un festival jazz aperto a tutte le contaminazioni possibili? Se in ambito jazz si consumarono i primi e più arditi esperimenti world fusion, perché non ritornare a quei luoghi e a quelle magistrali alleanze? Alternando talentuosi interpreti contemporanei a giganti delle pratiche improvvisative, la 43sima edizione del Festival Jazz di Roma si snoderà attraverso un fitto calendario, che in un mese proverà a distillare vecchie e nuove pratiche all’interno di un universo in rapida e costante evoluzione. Dave Holland – il primo bassista ad affiancare Miles Davis nel periodo elettrico – attraverso un’articolata carriera ha rappresentato l’epitome dello sperimentatore tout court. In trio, assieme al sassofonista Chris Potter e al maestro di tablas indiano Zakir Hussain, toccherà i più alti vertici di una nuova contaminazione filologica.
Fin dall’apertura, il festival si bagnerà nelle acque del multiverso ritmico, tenendo a battesimo una delle più folgoranti scoperte del dj e produttore Gilles Peterson. Parliamo dei Kokoroko, che saranno di scena al Monk, club satellite della rassegna assieme all’Alcazar e alla Casa del Jazz. Un ensemble mutevole, che ha saputo scandagliare non solo nei meandri della cultura afrobeat, ma anche uniformarsi alle più disparate pratiche della club music made in Uk, cooptando elementi hip hop, proto-jungle e finanche sontuose aperture funkadeliche. L’11 novembre è tempo di celebrare il mito: il rinnovato quartetto di Archie Shepp, che torna nella capitale per ripercorrere le tappe salienti dell’indipendenza afroamericana, scorrendo tra blues barricaderi e rigoglioso post-bop. E poi, ancora, il funk contemporaneo, con Cory Wong, talentuoso chitarrista e polistrumentista bianco di Minneapolis (guarda caso città natale di Prince). Prima con i Fearless Flyers e poi in solo ha sviluppato un invidiabile impatto ritmico, rivedendo quanto fatto da Nile Rodgers prima della consacrazione con gli Chic.
Di miti torniamo a parlare, quando sul palco della Sala Sinopoli si esibirà al pianoforte sua eminenza Abdullah Ibrahim, manifesto vivente non solo del jazz sudafricano, ma anche dello struggimento di intere generazioni, confinate dall’apartheid in fantasmatiche nicchie artistiche. Il 22 novembre, di nuovo al Monk – a ribadire una necessità costante in questo flusso trans-generazionale – saliranno sul palco i giovani inglesi Maisha e sua maestà Gary Bartz, sassofonista già al fianco di Davis ma soprattutto autore di vertiginosi lavori tra spiritual jazz e funk elettrico con i suoi NTU Troop nella prima metà dei Settanta. Un meeting galvanizzante che sin d’ora si pone ai vertici della manifestazione tutta.
Tra i più stimolanti dialoghi concepiti su vari livelli percettivi, è opportuno citare la Hypertext O’rchestra di Luigi Cinque, una formazione estesa che prevede, tra gli altri, Alfio Antico ai tamburi e come ospite speciale il contrabbassista israeliano Adam Ben Ezra. Multiculturalità che guarda alla luna, tra folklore mediterraneo e avanguardia. Con la chiusura del primo dicembre, andiamo a scomodare una delle eccellenze italiane per antonomasia, il trombettista Paolo Fresu, che nel progetto Mare Nostrum (qui l’attualità si fa urgenza comunicativa e stilistica) incontra due talenti cristallini come il fisarmonicista Richard Galliano e il pianista scandinavo Jan Lundgren.
Geschrieben von Luca Collepiccolo