La scena si presenta come una fortezza. Mura alte fino al soffitto circondano il limitare del palcoscenico. Cinque aperture (due laterali e tre sul fondo) preannunciano l’entrata degli attori. Inizia, musica forte, ripetitiva, un lento bordone che sembra manipolare il fumo che fuoriesce dal palco. Entra l’acrobata, Jérémy Juan Willi, che si arrampica con leggerezza sulle pareti del castello. Su questa atmosfera fa il suo ingresso Gabriele Portoghese che interpreta un astrofisico e recita il primo dei tre monologhi sullo spazio e sul tempo. Il secondo monologo è di un pastore errante che stanco, al lume di una candela, invoca la poesia di Leopardi Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Il terzo monologo recitato da Elena Rivoltini è una lettera che riflette sulla natura della politica e delle scelte dell’uomo. Tre parti sensate, belle, ognuna a modo suo, ben costruite dagli attori, con i bordi delineati, ma nell’insieme lasciavano un po’ di domande aperte allo spettatore. Avete presente quando fate un puzzle e ci sono due pezzi che sembrano combaciare e invece, alla fine, per un caso fortuito non si incastrano? La stessa sensazione la danno i tre monologhi, li unisce un collegamento, a mio parere, troppo debole, un’associazione troppo ampia, appunto l’universo stesso.
Invece la parte visuale, che intervalla le scene parlate, è un unicuum di senso e di meraviglia. L’acrobata in primis che vola, si arrampica, capovolge il mondo sfidando così le leggi dell’universo e mostrando altre dimensioni dell’umano. La musica, coinvolgente, lenta, che si fa tattile grazie alla nebbia, con un ritmo da battito cardiaco a cui Elena Rivoltini, ad un certo punto, aggiunge dei meravigliosi loop vocali. Le luci, che con la musica creavano una partitura visibile, sembravano un organo luminoso, suonato da mani invisibili. Gli oggetti, dalla maschera di sole/luna che a seconda dei giochi di luce e fumo sembrava, un Dio, un vecchio saggio, un pastore…al mastodontico pendolo di Newton che, come un ariete, sfonda le mura della fortezza e crea onde sinusoidali sul palco. L’umanità/fisicità dell’acrobata, la musica, le luci e gli oggetti riescono a dare una spiegazione in più dell’universo e del suo essere infinito. L’unica dimensione a cui non ci si può sottrarre è il tempo che per assurdo è anche l’unica cosa infinita per davvero, come afferma in uno dei suoi versi Leopardi “Del tacito, infinito andar del tempo.” Il risultato è quindi quello di uno spettacolo visuale, dove la parola risulta non necessaria a spiegare le complicate leggi della fisica.
Geschrieben von Francesca Rigato