Tutto sommato è normale che una band imprevedibile e incatalogabile come i Black midi polarizzi molto le opinioni di pubblico e critica, in equilibrio precario tra esaltazione e scetticismo. I giovanissimi weirdo londinesi usciti dalla Brit School e accasati su Rough Trade se ne fregano, spiazzanti e sfrontati quanto basta, immersi nel caos controllato delle loro sinfonie sincopate e apocalittiche, dall’enfasi quasi teatrale. Tra un audiolibro che in realtà è una sorta di jam dove declamano pagine di autori come Hemingway o Poe e un dissing goliardico a Ed Sheeran, il trio (orfano del chitarrista Matt Kwasniewski-Kelvin) ha pubblicato due album – „Schlagenheim“ e „Cavalcade“ – che sono un soqquadro prog-punk, una centrifuga psichedelica, un TikTok dell’art-rock 2.0 che prova a unire i puntini tra Zappa, Shellac e i Battles.
Ci riesce? Non secondo Geoff Barrow dei Portishead, che li ha definiti un po‘ troppo lapidariamente „il peggio di ciò che esce dalle scuole di musica“. Sì invece secondo una buona fetta di addetti ai lavori che li ha incoronati „next big thing“ della scena alternative britannica (anche loro come Shame e Squid arrivano dalla scena ultra DIY del Windmill di Brixton) e per tutti quelli che affollavano i loro concerti a Londra grazie al passaparola già prima di qualunque recensione illustre. Patchwork genialoide, baracconata pretenziosa, via di mezzo: nel dubbio ne dibattiamo a quattrocchi sotto al castello?
Geschrieben von Lorenzo Giannetti