Ho comprato il biglietto per questo concerto di dicembre in un pomeriggio afoso della scorsa estate. È molto raro che io mi muova con così tanti mesi di anticipo, ma è ancora più rara, diciamo sicuramente unica, l’occasione di un concerto dei The Necks a dieci minuti da casa. Nei loro 36 anni di storia, i tre australiani sono passati in Italia con il contagocce, da Milano, a occhio e croce, direi mai. Per sentirli dal vivo ho sempre dovuto passare troppe ore in autobus, in treno, nelle code degli aeroporti, ma ne è sempre valsa la pena. Forse era persino giusto, per un gruppo che viene da oltre sedicimila chilometri di distanza (per quanto due su tre siano ormai stabilmente di casa in Europa).
Che questo articoletto sembri uscito da un catalogo di un’agenzia di trasporti lo si può giustificare facilmente con il fatto che l’ultimo album del trio si intitola „Travel“ e rappresenta effettivamente una sorta di viaggio.
Ci vuole poco, tutte le volte che i tre si mettono a suonare comincia un viaggio. Comincia da zero, da prima che esista la musica, e arriva a infinito, nel senso che non arriva da nessuna parte. I The Necks ogni volta che suonano si perdono. E lo stesso capita a me ogni volta che li ascolto. Durante quell’ora, suppergiù, può accadere letteralmente di tutto e quel tutto sarà presto scomposto e sopraffatto dal suono, infine dimenticato. Quello che succede a un concerto dei The Necks resta a un concerto dei The Necks, quindi che senso ha parlarne qui, ora, quando tutto ciò che rimane da fare è accaparrarsi uno degli ultimi biglietti e non perderseli, meglio perdersi.
Geschrieben von Filip J Cauz