Non c’è modo di raccontare i Necks senza usare qualche (apparente) iperbole perfettamente aderente alla realtà. «Il più grande trio della Terra», «Un trio jazz solo se si specifica che hanno totalmente rivoluzionato l’idea di trio jazz», «Nessun gruppo nell’ambito della musica sperimentale è come loro». Quella ristretta cerchia di formazioni che sembrano saper sviluppare in maniera sempre uguale e sempre diversa una cosa speciale che sanno fare solo loro, soprattutto dal vivo – i primi a venire in mente con un’unicità simile sono i Natural Information Society di sua maestà Joshua Abrams.
Ridimensionerò il pregio dei toni aggiungendo che suonano quel tipo di musica che mi proietta nella dimensione libera dell’infanzia che associo alla sorpresa sconfinata del caleidoscopio. Partire da un’idea e trasformarla all’infinito. Un concetto serio, quasi scientifico, che si fa gioco. Del resto, se i Necks si conoscono da circa quarant’anni, è forse ancora più incredibile del fatto che la maggior parte li abbiano passati in emisferi diversi, la storia che qualche mese fa Tony Buck raccontava al magazine The Wire: all’inizio, a metà anni 80, con quelle intro senza capo né coda, gli unici a entrare nella loro dimensione, a prenderli sul serio, furono i punk degli squat occupati di Amsterdam (dove allora viveva il batterista).
I Necks ti portano così lontano che siamo già a largo senza aver dato le coordinate principali. Chris Abrahams al pianoforte e all’organo Hammond, Tony Buck alla batteria, alle percussioni e alla chitarra elettrica, Lloyd Swanton al basso elettrico e al contrabbasso. L’ultimo album, il numero 19, si intitola “Travel” e, al di là della pertinenza assoluta del titolo, vede il trio in una forma straordinaria (molto vicina alla loro affinata dinamica sul palco) in cui è impossibile dire se si tratti di improvvisazione, minimalismo, jazz, ambient, rituale, lenta e trascendentale metamorfosi. Due su tre vivono in Europa, ma per questioni di nascita continua a essere considerato un “trio australiano”: le incursioni nel Vecchio Continente hanno un ritmo scandito seppur ponderato, ma se siete qui forse già sapete quanto sia un evento eccezionale sentirli in Italia. E quanto mai potrà essere straordinario ascoltarli tra le mura dell‘Auditorium San Domenico, in un set pomeridiano, che immaginiamo consterà in una o due parti senza soluzione di continuità, partendo dall’idea semplice verso l’infinito? Ah, il regalo anticipato del Santo Natale ce lo fa Foligno – e nello specifico la rassegna Young Jazz Countdown insieme a T-Trane – città che ormai è un crocevia di sinergie speciali e su cui puntiamo tutto per tenere vivo e vigile questo centro Italia troppo spesso sonnecchiante.
Geschrieben von Chiara Colli