Un’ombra dai contorni irreali mi invita a guardare un film, affinché io dubiti di tutti i miei assunti. Ma prima, per quanto possibile, qualche parola.
Credo, più o meno da sempre, o almeno da qualche tempo più o meno remoto, che la scrittura agisca (e lo dico come di un farmaco o di un veleno inghiottito voracemente mentre nessuno guarda) nell’ambito dello scarto, nella zona grigia di quello che si guarda come con l’ausilio di un attrezzo polveroso e frantumato, una specie di lente, attraverso cui osservare il non visto, leggere il non scritto. Ritengo che vi sia più verità nella frattura, nell’ignoto e nel cono d’ombra che in ciò che si dà in maniera del tutto manifesta e ineccepibile.
Così è chiaro che la cosa più bella non sia stata ancora mai pronunciata, che la voce più gentile non sia mai stata ancora udita, la verità più ovvia non ancora scoperta, e che la domanda centrale, fondamentale, non sia stata ancora posta.
Nel solco di questa ipotesi, di questo ragionamento, la mia penna si è arenata più volte alla ricerca del graffio ferino della ragion d’essere della scrittura. La chiglia di questa rompighiaccio mastodontica e seducente che è la lingua che si produce nel suo stesso farsi, ha incontrato permafrost molto solidi sul suo cammino di seta, e si è arenata. Ciò che le grandi, enormi narrazioni della storia, e tutte le loro tentacolari intersezioni linguistiche hanno contribuito a costruire, si sgretolano, per così dire, tra le mie mani assetate di episteme e di verità. E noto, in una delle liquide ricerche volte a costruire il mio orizzonte di senso, che incontrano quelle altrettanto ferite, sporche di triacetato di cellulosa, tereftalato di polietilene e inchiostro per macchine da scrivere di Paul Schrader.
Più nel dettaglio: Blue Collar (1978). Primo lavoro da regista – perché Schrader è anche sceneggiatore, cineasta tout court e molto altro ancora – in cui la grande narrazione della lotta di classe incontra il buio semantico delle prime righe di questa breve e delirante dissertazione. Se il sistema di analisi dello scontro tra operai e padroni, nell’ambito dell’alienazione prodotta dalla fabbrica, si è ammantato di una pretesa di verità che ha sfiorato lo scientismo e il blasone dell’obiettività assoluta andando a ricoprire come un sacco bagnato di logica le peregrinazioni individuali degli esseri umani, (abiezione, frustrazione, regressione, colpa, spirito, di questo parlo) in quest’opera il suggello del marxismo si incrina per costituire un dispositivo nuovo, un tassello zigrinato e purulento per una gnosi divergente. Da esso, in una maniera che arreca sconcerto e vivida luce, si edifica lo scenario del territorio dell’umano. Il furto, la vendetta, la colpa, la solitudine e l’alienazione pretendono la loro ascesa sullo scranno della dignità; e il tradimento, l’abiezione dell’organizzazione di classe (il sindacato americano) che non risponde alle esigenze immediate degli oppressi, bensì ghigna alle loro spalle, non costituisce quell’orizzonte puro di significazione che richiede la matematica marxista leninista. Grazie, Blue Collar, (e Schrader, metonimicamente) per aver contribuito anche tu, a stracciare il mio saio da chierichetto trotskista.
Questo primo incontro lascia al suolo, ferito, un giovane alla ricerca disperata di un vangelo degli oppressi, che sia orizzonte politico, denso e materico combustibile per la scrittura: il sottoscritto. Instilla in lui una forma di dubbio – eccola, l’ombra dai contorni irreali che mi suggerisce di guardare un film.
Ma è stata la scoperta, lieta e terribile al tempo stesso, del fatto che Schrader sia stato l’autore della sceneggiatura di Taxi Driver (1976) a pizzicarmi nel profondo. Pellicola così tanto amata, così brutale e leggiadra nella rappresentazione della solitudine, tanto da disvelare con estrema semplicità la natura dell’alienazione, ed esprimere con pazienza e tensione hitchcockiana – di cui tutta la tendenza New Hollywood è in qualche modo debitrice – una parabola macabra e dolce, climax terribile e raffinato, angoscia tremenda, che collide con la mia che pure non sono un veterano della guerra in Vietnam e che pure mi racconta qualcosa di me, della mia particolarissima oppressione individuale e mi sembra così vera in quanto opera d’arte, in quanto scrittura, da far tremare tutti i miei torrioni di verità eretti con sacrificio e abnegazione. Che orribile fattezza quella degli esseri umani che soffrono a causa di un dolore nascosto nelle crepe più recondite della loro anima, e che per volere non si sa di quale abominio o capriccio, soffrono, tutti, nello stesso identico modo. Una nuova verità si palesa nel solco del non detto e mi dice: “Are you talking to me?” ed ecco che lo specchio è rotto, incrinato terribilmente da una 44 Magnum nascosta sotto la giacca, macchina per la morte destinata a incepparsi nel momento del bisogno, protesi di un cinismo che è inchiostro che macchia la carta incessantemente, si fa visione, dubbio, anamnesi.
Riccardo, ricorda: ringraziare Schrader (o l’ombra dai contorni irreali) per averti permesso di dubitare.
Sabato 28 settembre alle ore 16.30, non perdete l’opportunità di mettere tutto in dubbio ascoltando in prima persona Schrader, in occasione della masterclass (gratuita) che lo vede protagonista presso il cinema GODARD di Fondazione Prada.
Geschrieben von Riccardo Stefano D'Ercole