Ganavya Doraiswamy, all’anagrafe della musica semplicemente ganavya, voleva fare la ballerina. Benché nella sua infanzia, trascorsa tra New York, la Florida e l’India meridionale, fosse stata abituata a cantare epiche poesie sonore, specialmente nel corso dei sampradaya, pellegrinaggi canori in cui si usano tanto le gambe quanto le corde vocali, il richiamo dei suoi sogni era verso la danza. Non essere riuscita a vivere nel modo che aveva sempre desiderato deve essere stato un trauma profondo, eppure oggi lei stessa lo racconta come «una grazia salvifica». A un certo punto, infatti, ganavya ha seguito alla lettera il significato del suo nome, ‘colei che è nata per diffondere la musica’, e ha deciso di condividere questa sua grazia con chiunque abbia la fortuna di allungare il suo orecchio verso una voce così incantevole.

La musica di ganavya raccoglie tanto dalla tradizione carnatica indiana quanto dallo spiritual jazz di illuminazione coltraniana, tanto che quando la ascolti la prima volta ti suona quasi come una cosa che hai sentito da sempre, il tutto dispensato ultimamente al ritmo di uno o due dischi all’anno. Non occorre specificare che sono uno più bello dell’altro. Dal secondo ascolto infatti capisci che stai lentamente scivolando in un gorgo e che non c’è già più via d’uscita. L’ancora che ti trascina a fondo è proprio quella voce, dentro cui risuona l’amor supremo delle voci degli dèi, dei santi e di tutti gli angeli in colonna.

Niente di meglio quindi di andare ad ascoltarsela in una chiesa, nell’ultimo e remoto angolino della città prima dell’aeroporto. Qualcuno potrebbe approfittarne per allungare un poco e partire per qualche lontano angolo d’Asia, ma perché mai uscire dal gorgo, la più inattesa e graziosa via per la salvezza.