Senza la sua chitarra e le sue idee i Pixies avrebbero suonato in modo diverso, i Nirvana non avrebbero avuto alcuna rivoluzione da portare a termine, ai My Bloody Valentine sarebbe mancato un ideale termine di paragone sulla quantità di feedback da far uscire dagli amplificatori e (nel bene e nel male) i Foo Fighters non sarebbero mai esistiti. Che senza Bob Mould e gli Hüsker Dü non ci sarebbe mai stata la rivoluzione indie dei primi anni 80, quella che ha fatto convivere melodia e punk rock ma soprattutto quella del diy, lo sappiamo tutti. Quello che oggi è importante rimarcare è come Mould sia uno dei pochi (pochissimi) reduci tra i musicisti che hanno segnato gli anni Ottanta e Novanta ad aver mantenuto una credibilità: con un percorso da solista che nel corso degli anni ha azzardato fuoripista anche fallimentari, con interessi relativamente bizzarri extra musicali (tipo il wrestling), ma pure con una nuova vita – iniziata nel 2012 con Silver Age – che lo ha visto tornare a fare con naturalezza quello che gli riesce meglio. Power pop tiratissimo, grandi melodie in forma di sberle super elettrificate, un suono granitico e sudato che rinvigorisce l’abilità di zio Bob nello scrivere canzoni, come era stato tanto con gli Hüsker Dü quanto, nei primi Novanta, con gli Sugar. A Bob Mould non serve una reunion degli Hüsker Dü (e in fondo neanche a noi). Ma tutti abbiamo bisogno di continuare a credere in qualcosa.
Geschrieben von Chiara Colli