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Stadio San Siro

Foto di Francesco Merlini

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Stadio San Siro Piazzale Angelo Moratti,
Milano

Il tempio del pallone

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9 settembre 1926. Lo stadio del Milan è pronto. Il presidente Piero Pirelli si chiede chi invitare per inaugurarlo. I vecchi avversari dell’U.S. Milanese, cara al regime fascista, sono in crisi di risultati e per quel gigante da 35mila spettatori non garantiscono grande richiamo, e nemmeno Enotria e Ausonia. No, deve proprio invitare quelli là, i fuoriusciti, quelli che hanno lasciato il Milan perché volevano giocare con tanti stranieri (… già allora).

I dirigenti dell’Internazionale, sogghignando, accettano l’invito. E come spesso accade, rovinano la festa al Milan: finisce 6-3 per la squadra trainata da Luigi Cevenini, detto Zizì perché fastidioso come una zanzara (dopo aver segnato, era solito dileggiare il portiere, e se gli avversari erano deboli si sedeva sul pallone con aria schifata, invitando l’arbitro a chiuder la partita: «Se po minga giugà inscì»).

Il giorno dopo, per farsi perdonare, i nerazzurri si mescolano ai rossoneri per un’amichevole con una squadra di Praga, il Deutscher F.C.: insieme, vincono 4-1. Ma lo stadio del Milan sarà terreno fertile per i dispetti interisti: nel 1947 ci verranno a giocare anche loro, abbandonando l’Arena, e riusciranno a vederlo ribattezzato col nome di un giocatore più interista che milanista, Giuseppe Meazza; qualche anno dopo anche il piazzale su cui sorge verrà intitolato al loro presidentissimo Angelo Moratti. Mentre paradossalmente, a partire dagli anni 90, il nome Pirelli campeggerà su maglie e cappellini nerazzurri, e su enormi manifesti con un ragazzo pelato e parole perentorie: «La potenza è nulla senza controllo».

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22 novembre 1966. «Ha molta rogna, il Milan: che in lombardo significa scalogna. Sono convinto che i neutrali hanno sinceramente deplorato abbia perso questo derby. I rilievi critici sull’Inter invece inducono ottimismo: difficile che riesca a giocare peggio di come gioca ora. Se il Milan l’avesse infilata tre volte nel primo tempo, nessuno avrebbe potuto adontarsene. Ma il derby si sottrae ad ogni metro comune. Di un derby non si può mai parlare in assoluto. Chi lo guardi senza amor di parte ne resta schifato il più delle volte. E tuttavia lascia segni così profondi nei protagonisti da influire sempre o quasi sempre sulla stagione».

Così Gianni Brera su una partita decisa da un autogol del milanista Maddé, che lasciò segni profondi su uno spettatore, Gino Santercole. Tanto da indurlo a scrivere per Adriano Celentano uno dei primi brani a sfondo calcistico della canzone italiana: viene pubblicato nella primavera del 1967, e per la prima volta si fanno i nomi di due squadre. «Ma come fa a non ricordare? Eravamo in centomila allo stadio quel dì: io dell’Inter, lei del Milan. Da una parte all’altra le sorrisi e lei disse sì!». In effetti, dal 1955, con le nuove gradinate messe a raccordo delle tribune i posti sono 100mila. Poi per motivi di sicurezza verranno ridotti fino agli attuali 86mila.

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8 giugno 1990. François Omam Biyick si stacca da terra e decolla. La sua squadra, il Camerun, è in 10 uomini contro i campioni del mondo in carica. Contro Maradona e Caniggia, Burruchaga e Abel Balbo. Omam Biyick (è ancora lassù, lo vedete?) gioca nella serie B francese, con il Laval. Poco prima suo fratello Kana è stato espulso, e tra poco un altro dei „leoni indomabili“ in verde lo seguirà negli spogliatoi. Ma adesso non è importante: l’importante è che adesso Omam Biyick ha colpito il pallone di testa. La palla, lentamente, va in porta. San Siro esplode. Lo stadio che ha fischiato compatto il Divino Diego, Grande Avversario di Inter e Milan in quegli anni (…certo, mai quanto ha fischiato quando il nuovo tabellone ha incautamente inquadrato Andreotti, Cossiga e Craxi in tribuna) trema come di rado gli è capitato per le vittorie di una delle due milanesi, quelle serate di coppa in cui Bruno Pizzul se ne usciva col un «San Siro è una bolllgia!!!».

Il match inaugurale di Italia 90 è tuttora indicato in tutto il mondo come una delle più clamorose sorprese nella storia dei Mondiali: il Camerun, già più debole (del resto l’Argentina arriverà in finale tre settimane dopo) finisce in 9 contro 11, ma vince. Nella sua storia il Meazza ha ospitato tre finali di Coppa dei Campioni/Champions League, e presto saranno quattro. Ma fidatevi, poche volte ha ruggito come per i leoni indomabili.

 

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9 agosto 2009. «Quando si vede per la prima volta lo stadio Giuseppe Meazza (è il suo nome corretto) è arduo non restare senza fiato. Quando è illuminato, pare un’astronave atterrata in un quartiere residenziale. Potrebbe affrontare la Morte Nera e vincerla. Sì, è così impressionante».

Così Tony Evans del “Times” commenta la presenza del Tempio milanese in una classifica stilata da ex calciatori e giornalisti: quello che i britannici chiamano „The San Siro“ risulta il secondo stadio più bello al mondo (il n.1, per la cronaca, sarebbe il Westfalenstadion del Borussia Dortmund). Gli specialisti di FourFourTwo invece, sono un po‘ più severi: secondo loro al mondo ci sono addirittura 4 stadi più belli. Però nel suo articolo Andy Murray spiega che «A Milano ci sono due antiche meraviglie. Una è l’opera d’arte più studiata al mondo, un trionfo di prospettiva in evoluzione costante fin dall’inizio della sua lavorazione su un muro di Santa Maria delle Grazie, più di 500 anni fa. L’altra, è uno stadio. Stiamo davvero mettendo sullo stesso piano L’ultima cena di Leonardo e San Siro? Sì. Se ci siete stati, sapete perché». 

 

Lo stadio della musica

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27 giugno 1980. Robert Nesta Marley sale sul palco, e inaugura l’altra storia di San Siro con le parole «Nell’aria fluttua una mistica naturale». È già malato, morirà meno di un anno dopo. Ma Natural Mystic, con cui apre il suo leggendario concerto, coglie un aspetto dello stadio milanese che fino ad allora era sfuggito. C’erano già stati concerti negli stadi italiani: nel 1977 Celentano a Cesena, nel 1979 Patti Smith a Bologna e Firenze, Dalla e De Gregori a Genova, Torino, Bologna, i Pooh a Napoli. Ma Marley, che in quel momento ha il carisma del profeta, riempie la Scala del Calcio come non era riuscito ai fallimentari Europei del 1980: complice il disgusto popolare verso il calcioscommesse scoppiato a marzo, Italia-Spagna (giocata solo 15 giorni prima) aveva portato a San Siro 46mila spettatori – premiati peraltro con uno 0-0. L’Olanda vicecampione del mondo e la Cecoslovacchia campione d’Europa in carica avevano giocato davanti a sole 11mila persone. Non era di calcio che c’era voglia, ma di musica: nel giro di un mese si presero lo stadio anche Angelo Branduardi ed Edoardo Bennato. Ma San Siro consolida il suo status di massima arena italiana del rock a metà degli anni 80, con un altro uomo.

 

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21 giugno 1985. «Born down in a dead man’s town, the first kick I took was when I hit the ground». Un secondo dopo, come a confermare la sua voglia di edonismo reaganiano, Milano risponde: «Born in the USA!!!». Anche Bruce Springsteen sceglie lo stadio di Milano per il suo debutto in Italia: il Boss medesimo citerà tale esibizione come una delle più riuscite della sua carriera. Da quel momento il concerto al Meazza diventa un titolo nobiliare, ma anche un cimento: se non si fa il sold out all’Olimpico o al San Paolo, si può sopravvivere, ma non si sfida il Santo impunemente: se rimangono spazi vuoti, è uno smacco che media e appassionati di musica rinfacciano con perfidia.

Nel giro di pochissimi anni, vengono per farsi consacrare Claudio Baglioni (1985 e ‘86), Genesis, Duran Duran, David Bowie (1987). Non a tutti va benissimo. Approfittando dei lavori per i Mondiali del 1990, l’impianto osserva una pausa. Come se aspettasse un nuovo padrone.

 

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10 luglio 1990. «Guardami, credi che sia tutta rose e fiori, questa vita mia?» Negli anni 80, Vasco Rossi è stato a Sanremo due volte, arrestato due volte, ha creato innumerevoli casini ai promoter (e al pubblico), ha avuto problemi di droga e di nervi, ha litigato col produttore storico e coi suoi luogotenenti, i chitarristi Massimo Riva e Maurizio Solieri. Quando sale sul palco, prima di attaccare Muoviti, è un potenziale disastro. Quando scende, è la prima grande rockstar italiana.

«Suonare a San Siro per me era un sogno proibito», ha detto in seguito. Proibito? Nella hall of fame del Meazza ci sono Michael Jackson (1997), Ligabue (1997 e molte altre volte), Rolling Stones (2003 e 2006), U2 (2005 e 2009), Madonna (2009), Depeche Mode (2009 e 2013), Jovanotti (2013). Ma che l’uomo di Zocca vi piaccia o no, dopo oltre venti concerti, in un rito che sembra impossibile possa aver fine, non c’è alcun dubbio su chi sia il re di San Siro.

 

 

4 luglio 1994. Davanti a 40mila persone, si esibiscono a San Siro Al Bano & Romina Power. Sì, gente: davvero. Lo stadio non è pieno – ma 40mila persone, buttale via.

Dagli anni 90, non tutti i concerti sono pensati per uno stadio pieno: a volte il palco è sistemato in modo da offrirsi solo a una parte degli spalti. Ma quel che è certo è che la coppia italiana più amata all’estero fa parte di quel numero di artisti che nessuno riterrebbe capaci di suonare per grandi masse, e invece provano a vincere la loro personale scommessa, mobilitando i fan proprio grazie anche al fattore San Siro: è chiaro che un concerto qui sarà per loro un evento storico, un’apoteosi ben diversa da quella dei normali concerti. Ma a proposito di consacrazioni.

2 giugno 2007. Piove in modo spettacoloso, come pioveva a Woodstock nel 1969 e come piove a Glastonbury qualsiasi anno o quasi. Dopo più di un’ora la cantante, fradicia, si rivolge ai 70mila spettatori: «Sono orgogliosa di rappresentare le mie colleghe italiane, che verranno su questo palcoscenico, perché questa sera io sono la prima, ma non sarò l’ultima. Questo concerto è dedicato a mia nonna, alla mia amica Antonella e alle donne che hanno due palle così», dice – allargando parecchio le mani e le dita – Laura Pausini alla folla in visibilio. Per la prima volta una donna si prende San Siro, ed è italiana. Il concerto è una megaproduzione che ha richiesto un mese di lavoro, una prova generale a Grado, la manodopera di 700 persone, 23 autocarri e un elicottero per le riprese aeree. Qualcosa di simile era successo 2 anni prima.

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14 aprile 2005. Circular, un evento totale iniziato alle 6 del pomeriggio e proseguito fino alle 6 della mattina successiva. Per la prima volta da quando esiste, San Siro diventa casa di artisti, musichieri, saltimbanchi e pure fattucchieri – non è una battuta. Una cosa mai vista, per cui a costo dell’effetto elenco della spesa è il caso di ricordare chi, ognuno a diverso titolo, partecipò: Pietro Pirelli/Agon, Matthew Barney, Elisabetta Benassi, Carlos Casas, Cao Fei, Giuseppe Ielasi, Natalie Djurberg, Jimmie Durham, Yona Friedman, Alejandro Jodorowsky, Kinkaleri, ogi:noknauss, Thomas Köner, Arto Lindsay, Armin Linke, Marcello Maloberti, Pedro Reyes, Luca Vitone. E, come si suol dire, molti altri. Solo che quella volta fu vero.

 

Tra pochi giorni, subito dopo la finale di Champions League, Laura Pausini tornerà a San Siro, il 4 e il 5 giugno. Dopo di lei, toccherà a due gruppi italiani (una cosa che negli anni 80 e 90 non accadeva mai: la prima rockband nazionale al Meazza sono stati i Negramaro nel 2008): il tempio milanese celebrerà l’addio dei Pooh, poi i loro probabili eredi (anche se forse non per 50 anni), i Modà. Quindi, a luglio, dopo due concerti di Bruce Springsteen, grande dispiego di „divas“ con Rihanna (il 13) e Beyoncé (il 18). E a settembre, speriamo che qualche diva in nerazzurro o rossonero decida di darsi una svegliata e prendersi anche lei San Siro come una volta. Sarebbe ora.

https://www.youtube.com/watch?v=jPDMUTQtu_I