„Il caffè è un percorso.“ Con questa frase Maurizio Valli, del Bugan Coffee Lab, mi spiazza e mi colpisce. Non è solo uno slogan da marketer consumato: è vero. Ci sono viaggi che cominciano da una tazzina, così come certi naufragi iniziano da un bicchiere di vino. Eppure, mentre il secondo ci piace raccontarlo — con terroir, abbinamenti e sommelier col fazzoletto nel taschino— il caffè noi italiani lo diamo spesso per scontato.
La narrazione più diffusa lo riduce a carburante da ufficio, con fiumi di brodaglia calda bevuta distrattamente – pensiamo alle famose catene internazionali. Un’altra lo banalizza nell’espresso al volo al bancone, gesto meccanico e dimenticabile, per poi tornare nel traffico – in coda di solito. Poi c’è, invece, una narrazione diversa: rispettosa e appassionata.
E dunque, altro che “prendo un caffè e scappo”: da Bugan sembra quasi di entrare in un laboratorio segreto, dove ogni tazzina è un esperimento, tanto non mi stupirei di vedere Hattori Hanzo sciabolare chicchi di caffè. In uno spazio che ribalta un po’ l’idea di caffetteria italiana, qui invece dal design un po’ nordico, mi accoglie Maurizio Valli, già proprietario insieme alla sorella Sonia di due caffetterie a Bergamo, ora approdato al Naviglio, a pochi minuti da Porta Genova. Dopo i convenevoli, arriva la sorpresa: un caffè che non avevo mai bevuto prima. Sentori di melone, anguria, agrumi— sì, davvero, altro che “caffé nero bollonte”. Perché il caffè, appunto, è un percorso esotico che ti guida verso lidi iconici: Sud America, Centro America, Centro Africa, sud dell’India. Ogni tazza racconta la storia di una piantagione e stupisce con profumi e gusti figli del terroir in cui cresce.
Al Bugan non ci si annoia – anche perché con tutta quella caffeina ci mancherebbe altro, per carità.
Dicono che la vita sia troppo breve per bere caffè scadenti, be’, e mi pare proprio che Maurizio ne abbia fatto una religione: dal 2014 nel giro mondiale dei guru dello specialty coffee, appassionato santone di caffè monorigini estratti con metodi diversi, dal filtro, alla Moka Pump, dal cold brew al più classico espresso – purché sia divino, mi raccomando.
“Offriamo tecniche per estrarre e bere caffè diverse” mi dice con serietà di chi vuole cambiare il modo di bere degli italiani – (forse un mulino a vento, penso – pochi popoli sono conservatori e reazionari come quello italiano). Scopro così che nelle capsule vendute nei supermercati e dai blasonati brand ci sono solo cinque grammi di polverina marrone “praticamente acqua colorata” e che lì al Bugan un espresso ne contiene almeno 20 di grammi. Poi l’affondo al focolare italico per eccellenza: la moka brucia il caffè, rendendolo amaro e dunque l’italiano medio (come me) usa lo zucchero per renderlo bevibile e dolce – ma di fatto lo rovina (hai capito? Una vita a fare errori) “No Sugar in My Coffee” è infatti l’altro slogan da marketer anni 90 del Bugan – niente, zero, nisba, a meno che non ve lo portiate da casa non ne vedrete dentro il locale.
Laboratorio, corsi di degustazione con campioni nazionali e internazionali, persino mondiali di caffè: al Bugan non ci si annoia – anche perché con tutta quella caffeina ci mancherebbe altro, per carità. È il posto dove ti siedi per un caffè filtrato e rischi di ritrovarti arruolato in una squadra nazionale senza nemmeno accorgertene. Per curiosi e narcolettici.