L’ultima cosa che avrei immaginato d’ascoltare in un caffè letterario: risate di bambini, senza le urla isteriche di madri apprensive, senza che nessuno si senta infastidito da nasi piccoli che si ficcano in mezzo ai libri. Sorrido alla piccola peste [una bambina che avrà avuto 6(?) anni], lei ricambia interdetta e probabilmente la colpa è della mia barba [guardatomi allo specchio posso eliminare il probabilmente], ma è questione di un attimo. Lei torna ai suoi albi colorati, io mi ritrovo al centro della sala come un deficiente. Meglio dare un’occhiata in giro.
Dall’alto [lo spazio è suddiviso su due livelli: entrando sulla sinistra il bancone del bar con alcuni tavolini, sulla destra il banco libreria (al di sotto sono stipati dei libricini, cuciti a mano e in copie limitatissime, della Henry Beyle) con gli scaffali dei vari editori ed una saletta lettura con annessa porta bagno (sulla quale è illustrato un Gogol in intima posa) mentre di fronte un piccolo disimpegno ed una scala che porta al piano superiore] mi apposto come un avvoltoio e allungo il collo e tendo le orecchie, cerco di assorbire colori e rumori: sospiri di studenti [alcuni liceali, alcuni universitari, una signora over 50 piegata sulle pagine di Hitchens – Consigli ad un giovane ribelle], accento inglese, birra chiara, caffè, odore di libri nuovi, ticchettio di penne, dita veloci su tastiere, pane e marmellata [invece oggi che è festa non ci sono ragazzini e neppure bambini, un solo studente fa compagnia a coppie di trentenni pronti per i quaranta, calici di vino rosso e discussioni impegnate che affogano nell’ultimo singolo di Tiziano Ferro].
Se non mi fossi portato da leggere avrei avuto ampia scelta e se non avessi saputo cosa scegliere la Colonna dei Consigli mi sarebbe corsa in aiuto con i Consigli del Mese [a dicembre recita: La vegetariana, Istanbul Istanbul, Un solo paradiso, Le otto montagne, Lo schiavista, Sylvia, Una vita come tante, La mia vita è un paese straniero, Io non mi chiamo Miriam, Derive, Animali domestici, Faber, Perdersi]. Al piano superiore testi specifici: cinema, moda, teatro e arte [un tomo sull’opera omnia di Kandinskij – se qualcuno dei miei cari dovesse leggere questa recensione prenda spunto per Natale, grazie] ma io preferisco la narrativa [e mi sarei divertito a scavare nel reparto dell’usato che però, come mi spiega il libraio dall’accento francese, non c’è ma viene soppiantato dal catalogo completo di ISBN (ora fallita) e di alcuni titoli Adelphi che sono in libreria da quasi sempre e rappresentano la missione stessa della Gogol&Co: lavorare per i libri, a servizio dei libri e dei lettori, tutti, anche quelli più esigenti] e preferisco le case editrici indipendenti. Poso il mio Barthes sul bancone lettura e torno giù perché al piano inferiore ce ne sono tantissime. Scopro degli editori che non ho mai visto e/o sentito [NNedizioni, Voland e con stupore ritrovo la Bottega Fagiolari, di cui ho un paio di testi, tra cui Il ventre di Napoli della Serao (da buon napoletano), comprati proprio nei primi giorni di vita della casa editrice]. È bello sapere di non saperne abbastanza: per quanto ci si possa impegnare non si riuscirà mai a leggere tutto [ho citato involontariamente Massimo Troisi in Le vie del Signore sono finite «(…) Che i libri so‘ milioni, non li raggiungo mai, capito? pecché io so‘ uno a leggere, là so‘ milioni a scrivere, cioè un milione di persone e io uno mentre ne leggo uno (…)»] ed è forse anche per questo che è così bello farlo. Un piacere infinito. Un’infinita scoperta.
Prendo un caffè che è al di sopra della media milanese e io sono napoletano, aspetto soltanto di pagarlo per potermi sbilanciare: un buon caffè è buono anche nel prezzo [confermo, un buon caffè, quasi come quello di Napoli. La differenza è quasi trascurabile, come quella che passa fra il pagarlo 90 cent, al Bar Mexico, e 1 euro, da Gogol]. Se non mi fossi diretto al bancone sarei potuto rimanere lì per ore e nessuno m’avrebbe obbligato a pagare i 25 euro del romanzo che stavo a poco a poco leggendo. Forse perché era un pessimo romanzo, chissà. Il barista è cordiale, scherza, mi spiega come funziona con le consumazioni [non si paga al momento, ma, per la filosofia del vivi e lascia vivere, all’uscita. È possibile entrare per colazione, trattenersi per pranzo, restare sino all’aperitivo e andar via quando oramai è buio pesto. Probabilmente un giorno di questi lo farò. Non ci sono riuscito: non riesco proprio a pranzare fuori casa, sono arrivato per la colazione (preso un cappuccio discreto e un po’ di pane e nutella) e ritornato per l’aperitivo (una birra media, in tutto e per tutto)].
Sullo scontrino parziale c’è il nome di Danilo Dajetti, uno dei fondatori [mi informo: Gogol nasce nel 2010, come libreria indipendente, autogestita e autofinanziata sviluppando il concetto di presidio culturale. Ed è proprio in questa ottica che il libraio non ti importuna, il cameriere non ti chiede di liberare il tavolo perché si corre, soprattutto a Milano, ma è vero pure che c’è gente che vuole un posto dove fermarsi e io mi sono fermato volentieri]. Nel piatto della ragazza dai capelli rossi seduta accanto a me [nel bagno, tra le mille cose, è affisso un poster con alcune vignette di Linus; mi torna in mente Charlie Brown e credo d’esser stato piuttosto ambiguo con la ragazza dai capelli rossi. Mi dispiace] c’è qualcosa che mi ricorda una ricotta. Mi riprometto che tornerò per mangiare un boccone e magari assistere a qualche evento [ho stuzzicato qualcosa durante una serata Jazz, ma, sarà stata l’invasione di tavolini o il volume altissimo del chiacchiericcio della gente, non mi sono divertito per niente: dopo una decina di minuti sono uscito a fumare una sigaretta e non sono più rientrato. Avrei assistito volentieri ad una presentazione, ma ahimè è quasi Natale ed è festa per tutti, anche per gli scrittori].
Sui ripiani sono incise sul fondo nero della parete delle iscrizioni di gesso bianco: tra le frasi, scopare è la sola cosa che desiderano quelli che stanno per morire [Bolaño]. E qui sembra proprio che l’unica cosa che non si possa fare sia scopare [anche se ancora non ho controllato nel bagno]. Il bagno: non mi sono mai sentito così a disagio per la mia età e la mia altezza: tra il fasciatoio per i poppanti e lo sgabello per i bambini che non arrivano al lavandino afferro un volantino del Teatro Linguaggi Creativi [andrò a qualche spettacolo; Gogol riesce a stupirti anche mentre stai svuotando la vescica].
Ripasso dal bar, prendo una birra chiara, torno alla mia postazione sopraelevata. Mi piace l’idea di sorvolare la sala con lo sguardo anche se avrei preferito accomodarmi su una delle vecchie poltrone di pelle, belle ma perennemente occupate [su una di questa un ragazzino con due fili di barba legge Kafka, chissà se ci sta capendo qualcosa, ma mi sembra piuttosto turbato. Buon segno]. Prendo un sorso di birra e poi afferro il romanzo da 25 euro [di cui non dirò mai il titolo, neppure sotto tortura]. Sfoglio le pagine [tremendamente noiose]. C’è una biondina che mi ricorda Scarlett Johansson, mi sorride [sorrideva per il libro, doveva aver pensato anche lei quanto fosse un romanzo di merda]. Le parlo e lei ride e non capisce. È inglese [ecco spiegata la lettura di Purity in lingua originale, pensavo fosse un vezzo da radicalchic]. Rido io che di inglese conosco sette parole e tre le ho già usate: my name is…
[Ho smesso di prendere appunti, ho finito la mia birra e lei il suo tea. Abbiamo pagato il conto, ha iniziato a raccontarmi della sua vita, ma non ci capivo un accidenti e…il resto non è inerente alla recensione]
FRANCESCO SPIEDO