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Bestiario epidemico

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Geschrieben von Nicolò Belmonte il 25 März 2020
Aggiornato il 3 April 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

È iniziato tutto con l’arrivo di una donna dai tratti orientali.

Mononoke (giapponese: 物の怪).
I mononoke sono spiriti vendicativi della mitologia giapponese. Potevano essere semplici apparizioni oppure anime travagliate dei defunti. Erano temuti per la loro propensione a impossessarsi degli esseri umani, provocando sofferenze, malattie e infine la morte.

Si discute e basta, nei primi momenti. Il virus non è che un argomento come gli altri: poco meno dell’uccisione di Soleimani e poco più di Sanremo. Seduto al tavolo della cucina, metto in guardia i miei coinquilini dai rischi della paura, del panico ingiustificato. Percepisco il virus come lontano, evanescente, frutto di creduloni e superstiziosi, figlio di una subcultura del complotto o di una propensione millenarista per l’apocalisse. Fra gli audio fake e i post photoshoppati, fra basi segrete cinesi e manipolazioni genetiche, il mononoke scivola innocuo a migliaia di chilometri di distanza e si mostra per quello che è: semplici fantasie.

Poi compare fra le strade di Milano una ragazza in bianco.

Likhoradka (russo: Лихорадка, serbo: Милоснице o Milosnice).
La likhoradka è uno spirito femminile del folklore slavo. Appare come una giovane alta e pallida, con capelli lunghi e scompigliati, vestita di bianco. Si credeva che un suo bacio, o anche un semplice tocco, potesse trasmettere malattie, in particolare la febbre alta.

Ora il virus ha tratti familiari. Non porta più i drappi appariscenti del periodo Heian o il trucco bianco del teatro kabuki. Il pallore è vero, quello di una ragazza – o di un ragazzo – di 38 anni.

I capelli scomposti raccontano di notti senza sonno. Vuole solo un bacio o un abbraccio. Lo vogliamo tutti.

Camminando nel parchetto sotto casa intravedo i primi segni di un’inquietudine collettiva, ancora – credo – immotivata. Si risvegliano in me le tante letture distopiche, i vecchi libri di sociologia dell’università. Mi credo intoccabile, superiore.
Siedo su una panchina nei pressi di una fontanella. Fumo e penso di avere gli strumenti per capire, per leggere fra le righe, per proteggermi dall’ignoto.

In quell’attimo si alza il vento. Niente più che una brezza.

Ayerico (greco: αγερικό o αερικό).
L’ayerico è uno spirito malevolo proveniente dal folklore macedone e albanese. Si credeva che questi esseri dimorassero nell’aria, invisibili, sebbene talvolta potessero prendere forma umana. Erano portatori di malattie, fra tutte la peste.

Lo sento. Si muove intorno a me. L’aria fredda entra dai bordi della mascherina (quando l’ho comprata? Quando ho ceduto ai consigli dei tg?). Lo sto respirando. Ma no, non si muove nel vento. Come potrebbe? Saremmo tutti spacciati se così fosse. Forse l‘ayerico s’è tramutato, è divenuto infine carne e sangue.

Meglio stare attenti, meglio stare lontani, meglio stare soli.

Ritorno a casa con un nodo alla gola. Cammino sul balcone e chiamo gli amici. La sera guardiamo la tv; mi manca il fiato. Eccolo, penso: dispnea, “fame d’aria”, uno dei sintomi.
Poi mi salvano i palmi sudati, la faccia in fiamme, il battito accelerato.
Buon vecchio attacco di panico. Lo accolgo come si fa con un vecchio amico. Se solo il Covid-19 andasse via con le benzodiazepine.

Ai piedi del letto, la mattina seguente, si posa una colomba.

Caradrio (latino: caladrius).
Il caradrio era un uccello bianco dotato di poteri guaritori. Per gli antichi romani era in grado di assorbire le malattie per poi portarsele via. Nel medioevo, invece, acquisisce una funzione diagnostica. Se il caradrio guardava il volto del malato, questo sarebbe sopravvissuto; se guardava altrove, sarebbe morto.

Com’è entrato? La finestra della camera è sempre chiusa. Forse da quella del bagno. Mi stropiccio gli occhi per osservarlo meglio. Quale sarà la sua diagnosi? La malattia acquisisce tratti misterici, insondabili. Non è più una questione di prudenza, di regolamenti, di dove si è stati e di chi si ha incontrato.

Il movimento del capo di un uccello, segno misterioso del divino, mi condanna o risparmia.

Sono certo che da un momento all’altro arriverà la chiamata fatale: dai miei genitori, dai miei amici. L’incertezza confonde i pensieri, depersonalizza. Cerco una risposta – qualunque risposta – negli articoli e sui blog, negli speciali tv e sui commenti di Youtube.
Ma il caradrio non si muove: non mi guarda e non guarda nemmeno altrove.

Infine, una notte insonne e sudata, lo vedo.

Pazuzu (accadico: pà.zu.zu; chiamato anche Fazuzu o Pazuza).
Demone mesopotamico, signore degli spiriti del vento, portatore di tempeste, siccità e malattie. Era il consorte del demone femminile Lamashtu, creatura dall’aspetto di leone alato, anche lei portatrice di malattie, oltre che di incubi e infertilità. Sebbene Pazuzu fosse una figura temuta, non lo era quanto la moglie, ghiotta di infanti e donne in stato di gravidanza. È interessante notare come Lamashtu fosse terrorizzata dal marito, sicché gli idoli di Pazuzu venivano usati dalle partorienti per proteggersi contro Lamashtu, verso cui esercitava un’azione apotropaica.

Pazuzu ghigna e tiene il braccio alzato. Ghigna e spiega le ali. Ghigna e ha il pene eretto, che mostra con orgoglio in idoli e statuine. Il suo influsso piega le città, distrugge gli imperi. I piccoli uomini corrono ai ripari, si nascondono dal suo volo mortifero, si tappano la bocca per non respirare il suo alito.
Eppure non sono terrorizzato. Rimango sotto le coperte e penso che forse è qui per proteggerci dalla sua consorte Lamashtu, ingorda di bambini. Il virus-Pazuzu risparmia i più giovani, loro non hanno nulla da temere. La moglie invece li vuole, non pensa ad altro. Ma allora cos’è Lamashtu?
Leggo dell’aria di Milano, limpida come quella di Zermatt; leggo di Venezia e dei suoi fondali limpidi. Le mappe rosse e arancioni raccontano di una Cina meno soffocata. Le banche centrali balbettano e i mercati (quelli con i topi morti e quelli con i topi vivi) sono deserti.

Forse Lamashtu è il mondo; Lamasthu siamo noi.

O magari non ci sono Pazuzu e non ci sono Lamashtu ma solo mascherine e sirene e fiati corti.
Non so dirlo. Nel frattempo, dico a Pazuzu di mettersi almeno un paio di mutande.