A Cortina, dice Maurizio, da bambini si viveva all’aperto. «Uscivamo con qualsiasi tempo. Se nevicava era meglio. Avevamo i bob di ferro, pesanti, che scendevano come razzi. La sera buttavamo l’acqua sulla rampa per far ghiacciare la pista. L’unico problema era che la mattina mio padre non riusciva a portare fuori la macchina. Ma non mi ha mai detto niente.»
L’infanzia, lassù, aveva il rumore metallico dei bob e l’odore di neve vecchia. Era un’infanzia da manuale di sopravvivenza: niente videogiochi, solo il rischio calcolato di rompersi una gamba per arrivare più veloci. Cortina era un paradiso, ma anche un’officina: si costruiva, si sperimentava, si sognava in grande. Le Olimpiadi del ’56 avevano lasciato un’eco lunga, come una canzone che nessuno spegne alla radio.
Toni Sailer, per chi è cresciuto con i piedi nella neve, era un po’ il Bruce Wayne delle Alpi.

«Io non le ho vissute, sono nato dopo,» dice Maurizio. «Ma l’atmosfera era rimasta. Da bambini avevamo come eroi gli sciatori, non i calciatori. Toni Sailer, il “lampo nero di Kitzbühel”, vinceva tutto: slalom, gigante, discesa. Poi fece l’attore, il cantante, il dirigente sportivo. Era un supereroe in tuta da sci.»
Toni Sailer, per chi è cresciuto con i piedi nella neve, era un po’ il Bruce Wayne delle Alpi. Volava giù per le piste come se avesse un motore segreto, poi la sera si infilava uno smoking e finiva su un set cinematografico a far innamorare il pubblico. Era il primo divo della neve, l’idea che lo sport potesse anche essere spettacolo. Nelle baite si raccontavano le sue discese come leggende, con i bambini che cercavano di imitarlo e finivano dritti dentro i cumuli.
Io, come tutti quelli della mia generazione, leggevo fumetti e quel paesaggio mi ricordava Gotham City.

La Cortina di quegli anni sembrava davvero un film in Technicolor. «Le case di Gellner, il Palazzo del Ghiaccio, la pista da bob illuminata di notte con le luci allo iodio gialle — uno spettacolo. Io, come tutti quelli della mia generazione, leggevo fumetti e quel paesaggio mi ricordava Gotham City: montagne, neve e lampioni color ambra.»
Eccola lì, Gotham sulle Dolomiti. Invece dei grattacieli, c’erano tetti spioventi e finestre appannate. Ma l’architettura parlava una lingua nuova: il Villaggio ENI, il Motel Agip, le travi in legno che sembravano astronavi atterrate nella neve. L’Italia che si rialzava dopo la guerra aveva messo il cappotto buono e guardava verso il futuro. Le case sembravano sorridere, con le facciate geometriche e le ringhiere disegnate come spartiti. Edoardo Gellner fu l’innovatore, perché portò a Cortina uno stile nuovo, carico delle promesse di una modernità rampante; tanto che i suoi progetti fanno ancora discutere perché catapultarono su Cortina strutture audaci e anche un po’ aliene.
Nel frattempo, dietro ai banconi lucidati a specchio, si muoveva Mirko Stocchetto, il padre di Maurizio. «All’Hotel Posta arrivavano le delegazioni per ispezionare le strutture olimpiche: trampolino, pista da bob, stadio del ghiaccio. Una volta aspettavano dei giapponesi. Papà comprò due casse di sakè per accoglierli. Ma non lo bevvero mica. A Cortina questi volevano solo whiskey.»
Una volta aspettavano dei giapponesi. Papà comprò due casse di sakè per accoglierli. Ma non lo bevvero mica. A Cortina questi volevano solo whiskey.

Cortina era così: un mondo che stava arrivando a piccoli sorsi in una piccolo paese sulle Dolomiti. E che mondo. «Fra tutti Liz Taylor e Richard Burton,» ricorda Maurizio. «A Cortina giravano il film Mercoledì delle Ceneri e i due si vedevano spesso in giro.» Alloggiavano al Grand Hotel Miramonti Majestic, dando fondo alle più pregiate bottiglie di liquori e schivando i paparazzi che li inseguivano. Lei con i cappotti di pelliccia, lui sempre con un bicchiere in mano.
Liz e Richard furono i testimoni di una luce internazionale sul paese, che divenne il depositario di pettegolezzi, segreti e litigate furibonde tra i due. Poi arrivavano le ricche famiglie d’Italia: gli Agnelli, i Fürstenberg, i Marzotto. Le piste erano le nuove passerelle e la città si trasformava sempre più nel crocevia della mondanità. «Cortina era un salotto a cielo aperto,» dice Maurizio. «Dopo la guerra gli americani arrivavano in Europa in transatlantico e portavano la loro cultura del bere: Bloody Mary, Daiquiri, Margarita. Ma i prodotti non sempre si trovavano. Per esempio il lime non c’era, si usava il limone. Erano cocktail all’italiana, un po’ adattati, un po’ improvvisati.»
Era l’Italia che imparava a bere come gli americani, ma con la testardaggine veneta di chi, se manca l’ingrediente, trova la soluzione. Nascevano nuovi gusti, nuovi vizi. Il bar era un piccolo laboratorio chimico di modernità: dentro si mescolavano ghiaccio, gin e futuro.
Poi, un giorno, un volo. «A Cortina c’era l’aeroporto, fondato nel ’62 dal Duca d’Acquarone. Gli aerei canadesi ad eliche decollavano in spazi cortissimi. Papà prese uno di quei voli per Milano: andava a incontrare un certo Giuseppe Basso, che voleva vendere il suo locale. Si piacquero subito. Così nel ’67 prese in gestione il Bar Basso.»
Fu come scendere da una pista e ritrovarsi in un altro mondo. Da Cortina a Milano, dalla neve al cemento. Il ghiaccio restava, ma tritato nei bicchieri. «Non è stato un addio,» dice Maurizio. «Tornavamo spesso. Ma i collegamenti erano complicati: niente autostrada, curve, passi, strade che ti facevano passare la voglia di tornare. Eppure, ogni volta che arrivavi, avevi la sensazione di rientrare in un sogno.»
Non è stato un addio, tornavamo spesso. Eppure, ogni volta che arrivavi, avevi la sensazione di rientrare in un sogno.

Oggi quel sogno si scioglie di nuovo, con le Olimpiadi del 2026. «Milano ha più spazio per sperimentare, più libertà,» dice Maurizio. «Cortina invece deve conservare. Ogni nuova costruzione rischia di rompere l’equilibrio tra la montagna e la sua storia.»
È il grande dilemma italiano: cambiare tutto per restare uguali. Le Olimpiadi del ’56 erano state un inno al futuro; quelle del 2026 rischiano di essere un selfie del presente. «A Cortina portano infrastrutture necessarie — strade, collegamenti, sanità. Ma al prezzo del paesaggio. A Milano, invece, i nuovi quartieri come Santa Giulia o Porta Romana cambieranno lo skyline, ma lì l’impatto è più gestibile. Anche se spesso di dubbio gusto.»
E poi c’è la realtà, sempre lei, che arriva come una slavina. «Le Olimpiadi modificano la quotidianità. I prezzi delle case, il turismo, le stagioni. Chi lavora a Cortina spesso non può permettersi di restarci. Le seconde e terze case gonfiano il mercato, i residenti storici diventano una minoranza. È un equilibrio fragile: tra innovazione, storia, economia e territorio.»
«Cosa penso delle Olimpiadi? Che sono una fortuna e una condanna. Ti fanno crescere, ma ti svuotano. Come la neve quando si scioglie: bellissima, ma effimera.»
Fuori, i tram di Milano riflettono le luci sull’asfalto. Dentro, Maurizio parla ancora della montagna, sospeso tra memorie antiche e impressioni presenti. Ai miei occhi quel mondo ha preso la patina del tempo, ma conserva una forza evocativa intatta — un’eco che resiste, come solo le montagne sanno fare.