Per la prima volta dopo diversi anni i lavoratori e le lavoratrici del Settore Cultura del Comune di Bologna sono in stato di agitazione. L’ultimo caso fu nel 2017, quando si paventò l’esternalizzazione delle biblioteche comunali poi fermata all’unico caso della Biblioteca Lame-Cesare Malservisi nel Quartiere Navile. Anche stavolta, la questione riguarda il rischio di esternalizzazione, non solo delle biblioteche, ma di tutti i servizi culturali pubblici. Il personale comunale ha, infatti, continuato a ridursi nonostante l’utilizzo di lavoratori di società private in appalto e nonostante i frequenti annunci sull’apertura di nuovi luoghi dedicati alla cultura. Solo per citare alcuni progetti presentati: il Museo dei Bambini e delle Bambine al Pilastro, il Polo della Memoria Democratica che dovrebbe nascere nell’area della Stazione Centrale, il Museo della Casa Popolare in Bolognina o, da ultima, l’acquisizione molto discussa di Palazzo Pepoli a seguito della crisi di Fondazione Carisbo e Genus Bononiae.
La domanda che viene spontanea è: quali persone faranno funzionare questi spazi? E chi garantirà l’apertura di quelli che già esistono?
Di questo e altro si discuterà in un’assemblea sindacale convocata dalla FP CGIL di Bologna per venerdì 17 maggio presso il centro Katia Bertasi in vista dello sciopero generale metropolitano per la tenuta dei servizi pubblici fissato giovedì 23 maggio.
«La grandissima preoccupazione che abbiamo come sindacato – ci dice Marco Iacono, sindacalista della FP Cgil – è che, come spesso accade, si faccia cultura dimenticandosi del lavoro. E stiamo assistendo a una precarizzazione progressiva del lavoro nella cultura anche all’interno del Comune di Bologna, un fatto inaccettabile».
Attualmente i e le dipendenti comunali per il Settore Cultura – secondo i dati della CGIL – sono circa 320, di cui circa 120 per i musei, circa 170 per le biblioteche e gli altri per il Dipartimento che si occupa di promozione e organizzazione. Quelli in appalto, più difficili da calcolare per la natura flessibile del lavoro, sarebbero, invece, una sessantina per i musei e un’ottantina per le biblioteche.
«I tagli al personale – spiega Iacono – non sono licenziamenti, ma stanno arrivando in automatico, nel senso che quando ci sono uscite per pensionamenti o per dimissioni volontarie, e non c’è nessuna sostituzione, automaticamente si sta tagliando il personale. Il problema è che contemporaneamente ci stanno dicendo che amplieranno l’offerta dei luoghi, però dovrebbero raccontarci anche con quali lavoratori lo faranno».
«Il Comune di Bologna – continua Iacono – ha fatto un concorso ed esiste una graduatoria formulata due anni fa per assumere personale per la cultura. Questa graduatoria però scade a luglio e, sebbene avesse dovuto essere assorbita in toto, solo un terzo delle persone su circa 90 sono state assunte e non si sa cosa ne sarà delle altre. Parliamo ovviamente anche di persone che già lavorano per il Comune attraverso appalti.
In Italia ci sono norme nazionali che da 20 anni impediscono ai Comuni di fare assunzioni, quindi questa è un’occasione unica e rara. Ma la nostra è una preoccupazione realistica, perché nonostante una graduatoria esistente, gli investimenti maggiori in termini di ricerca di personale del Comune sono passati per i bandi sul servizio civile. E il servizio civile non può essere utilizzato per coprire le mancate assunzioni, non lo possiamo accettare. Così come non possiamo accettare che i lavoratori e le lavoratrici assunte tramite appalto abbiano dei contratti meno tutelanti dei dipendenti comunali e che riguardano il settore commercio (nel quale rientrano anche i servizi di pulizia e molto altro) e non il contratto nazionale Federculture che è quello appropriato per l’attività culturale che svolgono tutti giorni e che ha retribuzioni parametrate al sul contratto nazionale dei dipendenti comunali».
I dubbi della CGIL di Bologna riguardano anche l‘utilizzo delle fondazioni, come Fondazione Innovazione Urbana o Bologna Welcome.
«Se il Comune non assume e non amplia gli appalti, che hanno quei problemi di cui sopra, può venire il dubbio che le fondazioni finiscano a fare le attività che dovrebbe fare il Comune. Non vorremmo, cioè, che le fondazioni diventassero quel soggetto terzo attraverso il quale arrivano poi lavoratori a partite iva o altro. Ad oggi, per quello che noi sappiamo, la fondazione Bologna Welcome, ad esempio, ha un ruolo relativo alla valorizzazione commerciale degli spazi di cultura e non di gestione e noi abbiamo ben chiarito che non vogliamo che questo accada. Fermo restando che se si fa attività al posto del Comune noi pretendiamo che lì ci sia l’applicazione del contratto nazionale degli enti locali, e se si fa cultura quella del contratto nazionale di riferimento del settore culturale».
«Se decidiamo che c’è un valore pubblico della cultura, – conclude Iacono – secondo noi l’impegno di un ente pubblico deve essere quello di presidiarlo il più possibile direttamente e mai scaricare il problema dei costi sul costo del lavoro. Se l’Amministrazione non lo fa, in parte sta ingannando i cittadini, perché annuncia una serie di investimenti sulla cultura, creando delle condizioni per i lavoratori che come sindacato non possiamo in alcun modo sopportare».
La situazione non migliora certo nel privato, anzi, dove la precarietà – afferma Viviana Gardi, responsabile del Dipartimento Produzione Culturale Emilia Romagna in SLC-Cgil – è «nella natura dello spettacolo dal vivo e del lavoro culturale».
Uno dei grandi problemi è che è sempre più difficile avere dei dati precisi e il dubbio è che dietro l’assenza di numeri ci sia una precisa volontà: «Probabilmente gli osservatori regionali hanno smesso di raccogliere dati perché contrasterebbero con l’immagine che si vuole dare».
Un dato interessante però esiste: «Su una sessantina di posti disponibili per le cariche dirigenziali del Settore Cultura – racconta Gardi – 58 sono uomini e 2 sono donne e nelle realtà che seguiamo l’80% della forza lavoro è composta da donne. Donne che nel momento in cui hanno dei figli o devono badare a genitori anziani, come succede anche in altri settori, vengono messe nelle condizioni di svuotare la loro quotidiana professionalità perché viene svuotato il proprio ruolo».
«Bisogna partire dal fatto – spiega – che il problema del lavoro culturale in Italia è prima di tutto nazionale. Ogni ministro di turno ha parlato dell’importanza della cultura, ma poi l’ha affossata. I dati nel settore privato sono molto difficili da avere perché i datori di lavoro non fanno i contratti e moltissime persone lavorano con la prestazione occasionale, se non in nero. Bisogna anche considerare che per avere un contributo (e quindi i dati estrapolati dall’INPS, ndi) per chi lavora nello spettacolo dal vivo in modo discontinuo, ci vogliono almeno 90 giornate contributive in un anno, traguardo raggiunto solo da un quarto di loro. E c’è poi il fatto che chi è precario/a molto raramente si rivolge a un sindacato o si ribella, per paura di perdere anche quel poco che ha. Fino al 2019 in Emilia-Romagna avevamo dei dati grazie all‘osservatorio dello spettacolo regionale, osservatorio che dopo la pandemia è stato dedicato però solo alla promozione turistica. Sul lavoro non c’è più nessun dato. E dopo la pandemia sappiamo per certo che si è perso molto lavoro ed è aumentato il precariato. Ci sono sì una serie di rapporti nazionali, ma si fa davvero molta fatica ad avere numeri chiari, perché a livello locale nessuno li raccoglie più.»
L‘ultimo rapporto dell’osservatorio, relativo al 2019, fotografava comunque una situazione abbastanza sconfortante per una Regione che si vanta del proprio impegno in cultura: i lavoratori dello spettacolo ammontavano, infatti, a 11.840 (lo 0,2% della popolazione totale) di cui solo 2731 quelli a tempo indeterminato (lo 0,06%).
«Bologna – continua Gardi – è ancora un’eccellenza per numero di attività e per finanziamenti, ma forse la miriade di attività e i finanziamenti a pioggia non aiutano il tessuto culturale. Quello che vediamo è che ci sono realtà finanziate dal pubblico, non solo dal Comune, che abitano spazi della città e non si comportano come dovrebbero. Parliamo anche di realtà che esistono da molto tempo. Per contrastare il lavoro irregolare nel 2021 avevamo anche firmato un protocollo delle Buone Pratiche con il Comune. Per questo sarebbe sicuramente meglio fare dei finanziamenti adeguati per retribuire e contribuire correttamente altrimenti è chiaro che la piccola associazione non potrà mai pagare giornate e giornate di contributi e diventa difficile vincolare i finanziamenti alla contrattazione nazionale.»