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Al sabato sera andavo al Leoncavallo

Eventi e luoghi che hanno cambiato le città: Milano, capitolo 5

quartiere Casoretto

Geschrieben von Alessandro Bertante il 19 Mai 2020
Aggiornato il 14 September 2020

Quante volte siamo partiti DA ZERO?
Quante volte eravamo lì, abbiamo visto cambiare tutto ma ce ne siamo resi conto solo dopo, come se fosse successo per magia? Qual è il segreto?

Zero riparte dalla città, in un viaggio avanti e indietro sulla linea del tempo. Dagli ultimi 30 anni del passato, da cui sembriamo lontanissimi e da cui prendere il meglio. Dal presente in cui è impossibile andare avanti, è impossibile tornare indietro, in cui siamo immobili e soffriamo. Dal futuro che pretende immaginazione.

Al sabato sera andavo al Leoncavallo.
Sono le nove e un quarto, tutti i sabati sono le nove e un quarto. Nel buio delle strade male illuminate, abbandoniamo l’ombra del piazzale per inoltrarci a piedi lungo via Andrea Costa verso il quartiere Casoretto, dentro una misteriosa Milano popolare da periferia industriale, avvolti da questa densa memoria di fabbriche, ligera e Volante rossa, così diversa dal mio quartiere impiegatizio dove non succede mai nulla e che io detesto fino all’ultima piastrella klinker.

24 settembre 1989, festa al Leoncavallo

Ho diciassette anni, e non vorrei essere da nessuna altra parte. Fa molto freddo, sopra il maglione indosso solo l’impermeabile ma non importa, abbiamo sniffato anfetamina e siamo potentissimi. Rimbalziamo contenti sulle nostre clipper nuove di pacca, le abbiamo comperate questo pomeriggio da Corneil’s, io ho preso quelle di pelle con la punta, Claudio e Marco quelle tonde con gli anelli. Mentre camminiamo in ordine sparso, sbirciamo nelle vie laterali le automobili accostarsi alle prostitute, loro ci guardano indifferenti, siamo solo dei ragazzini vestiti di nero. Il cuore batte più forte quando oltrepassiamo il crocevia criminale di Piazza Durante, dove, dietro al baracchino delle salsicce, malavitosi di tutte le razze giocano a dadi fino alle prime luci del mattino. L’odore dei bulbi rosolato con lo strutto ci accompagna per un altro centinaio di metri, e siamo già in via Leoncavallo, questa strada dormitorio per lavoratori.
Pisciamo sulle aiuole del benzinaio deserto.
Qua vicino le gang di cileni vendono l’eroina, gli autonomi se li beccano li prendono a sprangate, più avanti ci sono i travestiti sudamericani e poi, ancora, altre prostitute italiane. Attraversiamo la strada e ci troviamo di fronte a un grande muro senza fessure, un normale muro industriale costruito nel dopoguerra. Oltre c’è una fabbrica chiusa, una delle tante a Milano in questi anni di frontiera. Ma la normalità s’interrompe quando, dopo pochi passi, il grigio del cemento viene coperto dai murales disegnati con la vernice, alternati ai primi graffiti fatti con le bombolette spray.

Oltrepassiamo la soglia pompati dall’anfetamina, cani selvatici in cerca di un cambio di velocità

Siamo arrivati. Per entrare dobbiamo passare da una porta piccolissima annunciata da tre gradini. Non c’è scampo, siamo sempre i primi, giovani ragazzini inesperti ma smaniosi di esserci. Oltrepassiamo la soglia pompati dall’anfetamina, cani selvatici in cerca di un cambio di velocità. Ci guardiamo intorno, le nostre domande sono incessanti e noi non abbiamo bisogno d’altro. Che ci importa? Non sappiamo neppure che concerto ci sia ma è sabato sera e il Leoncavallo è l’unico luogo a Milano Metropoli degli anni Ottanta dove possa succedere qualcosa che ci faccia sentire vivi, qualcosa da raccontare il giorno dopo e nei mesi che verranno. Perché ovunque ci troveremo, noi tre adolescenti scuri con i capelli rasati saremo quelli che vanno al Leoncavallo, quelli che cercano un altro cielo.
Subito dopo la porticina si apre una stanza enorme, fredda e male illuminata, sembra di stare in un macello abbandonato, eppure anche questa è Milano, è la nostra città, adesso, nel presente frantumato dove le epoche si stanno scontrando. Sulla destra c’è il palco per i concerti, basso e spartano, mentre sulla sinistra, dopo una ventina di metri, comincia una scala stretta e tremolante che conduce in una stanza rialzata dalla quale vediamo uscire una luce fioca. Saliamo verso il Baretto caricati dall’anfetamina e dalle aspettative della notte, perché già sappiamo che alla fine della scala ci sarà tanta gente, una tregua di tepore in questo inverno gelido e crudele e troveremo da bere, spendendo poche lire per birre in lattina italiane di marche sconosciute. Entriamo nella stanza, il fumo delle sigarette è così spesso da confondere la vista, davanti a noi vediamo volti di autonomi trentenni invecchiati troppo presto, pance gonfie, baffi e barbe lunghe, diffidenza manifesta, tipi duri, sottoproletari, qualche aspirante criminale, occhi attenti, modi bruschi, spostati mezzi ritardati, voci basse se non, improvvisamente, troppo alte, accelerazioni di violenza che fanno paura, la pazienza derisoria degli uomini di fronte ai ragazzini vestiti di nero. Ragazzini che non sanno niente ma non si fermeranno di fronte al primo ostacolo, non si fermeranno perché pretendono di esserci.

Il Leoncavallo nella sua rudezza sembrava uscito dalla fantasia alcolica di un Dio del cemento, un Dio arcaico, primordiale e vendicativo ma anche magnanimo che sapeva ricompensare la fedeltà di chi lo amava

Il Leoncavallo nella sua rudezza sembrava uscito dalla fantasia alcolica di un Dio del cemento, un Dio arcaico, primordiale e vendicativo ma anche magnanimo che sapeva ricompensare la fedeltà di chi lo amava. E negli anni Ottanta non eravamo in molti ad avere quel coraggio. Frequentare i centri sociali occupati era una scelta impegnativa, bisognava volerlo davvero perché avrebbe potuto avere delle conseguenze serie. Non si era ancora formata quell’ampia base di consenso, variopinta, creativa, e disimpegnata che ne fece la fortuna durante gli anni Novanta. Era un luogo per militanti autentici, mischiatisi secondo un’osmosi naturale a emarginati sociali, abituati a gravitare al confine della legalità. Potevi incontrare chiunque e la notte nascondeva i pericoli della metropoli sporca, quella che non ti rispetta se sei un coglione e a diciassette anni sei quasi sempre un coglione.

23 settembre 1989, manifestazione dopo lo sgombero del Leoncavallo

Fu quasi per caso che conobbi l’Helterskelter. Era uno spazio indipendente fondato da ex ragazzi del Virus insieme a dei post punk fanzinari, “creature simili” si facevano chiamare allora, in una palazzina nel cortile interno del Leoncavallo, a pochi metri da via Mancinelli, dove avevano assassinato Fausto e Iaio. Passare in pochi secondi dai vecchi autonomi del Baretto del Leoncavallo ai giovani ribelli underground dell’Helterskelter, era uno shock estetico da lasciare tramortiti. La prima volta che buttai la testa dentro fu come entrare in un’altra dimensione: al Casoretto si era aperto un varco. C’erano decine di ragazzi e ragazze vestiti di nero, giovanissimi, magri, eleganti come vampiri, ammassati in una stanza spoglia ad ascoltare la mia musica e io non ne sapevo niente, nessuno mi aveva avvertito. Neppure Marco e Claudio, i miei amici della scuola, sapevano esistesse questo posto clandestino e meraviglioso.
Diventò la nostra meta agognata, il pensiero dominante, l’unica passione che io riesca a ricordare nella mestizia di metà decennio.

Locandina Helter Skelter – foto di leoncavallo.org

Helterskelter, Helterskelter Helterskelter, potrebbe essere davvero stato un sortilegio sorto nell’inverno profondo. Ero molto giovane e poco saggio, mi rimangono ricordi confusi e contraddittori di quelle serate passate fra musica lancinante, anfetamina, pattex, alcool e benzodiazepine prese a manciate. Quelle serate che volevamo non finissero mai ma il tempo ogni volta passava in un istante e noi lo dovevamo bruciare tutto, finché non perdevamo l’ultima metropolitana, l’ultimo autobus sostitutivo e anche, dopo una corsa a perdifiato, l’ultimo filobus numero Novantuno. E poi rimaneva solo il lungo viaggio nella metropoli a piedi in completa solitudine, perché i miei compari andavano in direzioni diverse. Marciavo nella notte fino a Piazzale Lotto, fino alla Coney Island del mio tormento.

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